“Agostino, ucciso dalla mafia, andava a caccia di latitanti”

Agostino e castelluccio

Pubblicate le motivazioni della sentenza di condanna contro Gaetano Scotto.

L’omicidio del poliziotto Antonino Agostino, ucciso a Villagrazia di Carini il 5 agosto del 1989 assieme alla moglie Ida Castelluccio (incinta), ha una matrice “indubbiamente mafiosa” ed è stato ucciso in quanto ritenuto pericoloso per il suo impegno “nella ricerca di latitanti di mafia”.

È questa la causale che si ritiene accertata nelle motivazioni della sentenza della Corte d’Assise di Palermo, presieduta da Sergio Gulotta (a latere Monica Sammartino), che ha condannato all’ergastolo il boss dell’Arenella Gaetano Scotto ed assolto dall’accusa di favoreggiamento, “perché il fatto non sussiste”, Francesco Paolo Rizzuto.

Il deposito è avvenuto lo scorso 24 settembre praticamente nei giorni in cui è iniziato il nuovo processo d’appello in abbreviato (con la Cassazione che aveva annullato con rinvio) contro il capomafia di Resuttana, Antonino Madonia.

“Vi è prova certa – secondo i giudici – che l’agente Agostino, nei mesi precedenti alla propria morte, fosse effettivamente impegnato in un’attività assai pericolosa, mirata alla individuazione di importanti latitanti mafiosi, al di fuori dal servizio e dai propri compiti ‘istituzionali’, sulla base di sollecitazioni derivanti dalla diffusione da parte dei servizi segreti di liste contenenti la indicazione di ricompense in denaro per la loro cattura”. Ed ancora vi è “prova certa che tale attività egli svolgeva proprio nel mandamento di Resuttana, con particolare riferimento al vicolo Pipitone ed alle sue immediate vicinanze, regno dei Galatolo e vera e propria “base operativa” di Antonino Madonia, che di quel mandamento era il vertice assoluto”.

È questo il punto fermo su cui partire nella ricerca della verità su quel duplice omicidio.

Una sentenza importante perché mette dei punti fermi sul delitto, certifica il depistaggio istituzionale compiuto negli anni, e che prova il forte collegamento tra la famiglia mafiosa di Resuttana e pezzi deviati dello Stato.

Il depistaggio “passionale”: la pista “Aversa”

La Corte ha messo in evidenza che le indagini sul duplice omicidio, su particolare spinta dell’allora capo della Squadra mobile Arnaldo La Barbera, si concentrarono gravemente sulla pista passionale, senza tener conto degli elementi che già il 6 agosto avrebbero dovuto indicare la causale.

A partire dalla relazione di servizio dell’agente Domenico La Monica in cui si parla delle attività svolte fuori dal servizio per la ricerca di noti latitanti come Totò Riina e Bernardo Provenzano.

La cosiddetta “pista Aversa”, alimentata dal ritrovamento di alcune annotazioni e bigliettini con il riferimento alla ragazza ed alcuni suoi familiari, era assolutamente “forzata ed irrazionale”. Non solo perché molti di quegli appunti erano stati scritti ben sei anni prima il delitto, ma anche per il contenuto in cui si manifestano timori, senza elementi significativi. “È davvero arduo – scrive la Corte – ritenere che in buona fede, a fronte di tali manoscritti, del loro contenuto intrinseco e dell’epoca di loro formazione, gli investigatori possano aver accreditato, peraltro in via esclusiva, la tesi di un omicidio sostanzialmente passionale, legato a ‘questioni di donne’, fondato su un rancore mantenuto per così tanti anni e talmente radicato da giustificare addirittura un duplice omicidio commesso con modalità così eclatanti e efferate, ai danni di un poliziotto e della sua giovane moglie, in un territorio soggetto a capillare controllo mafioso”.

Il contesto di un omicidio: il Commissariato San Lorenzo

Diversamente le dichiarazioni di La Monica sull’attività di ricerca di latitanti, “era in linea con la precipua realtà del Commissariato di San Lorenzo, dove circolavano dei veri e propri ‘prezziari’ diffusi dai servizi segreti, e in particolare Sisde, con l’indicazione della ricompensa che sarebbe spettata a chi avrebbe consentito la cattura di una serie di latitanti di mafia”.

Nel processo sono emerse diverse testimonianze sull’attività di Agostino. Al suo amico e testimone di nozze Francesco Lupo aveva detto “che stava facendo qualcosa di importante di cui a breve avrebbe letto sui giornali”.

A La Monica parlò anche di un parente “che gli avrebbe permesso di arrivare a certi livelli per la cattura latitanti”. E lo stesso Guido Paolilli, soltanto nell’udienza del 2017, ha detto che Agostino gli confidò di “temere di essere sparato” a causa di un “parente alla lontana di sua moglie… vicino alla mafia”.

È emerso nelle indagini che il parente era Santo Sottile (soggetto di San Giuseppe Jato, marito di Maria Concetta D’Alessandro, zia materna di Ida) ritenuto essere stato vicino a Giovanni Brusca.

“In un siffatto contesto – scrive la Corte – davvero non si vede per quale ragione l’Agostino dovesse temere di essere ‘sparato’ per una tale parentela della moglie, se non proprio in conseguenza di una sua attività, per così dire, di indagine che partendo dal Sottile intendesse raggiungere Giovanni Brusca – figlio di Bernardo Brusca, storico ‘capo mandamento’ di San Giuseppe Jato e grande alleato di Salvatore Riina – o persino lo stesso Riina Salvatore, il quale durante la lunga latitanza era stato spesso presente proprio nel territorio di quel mandamento”.

Sul punto viene anche ricordato “il pedinamento” di cui ha parlato lo stesso Brusca, subito ad opera di Agostino, a bordo di un vespino, mesi prima del delitto.

Il collegamento con Palazzolo, Genova e Piazza

La causale della “caccia ai latitanti” viene dunque valorizzata dai giudici anche tenendo conto di una serie di fatti avvenuti in quell’anno. “Siffatta causale – a parere della Corte, inequivocamente emergente dalle risultanze sopra esposte – appare altresì perfettamente sovrapponibile, trovando quindi ulteriore conferma logica, a quella che ha caratterizzato la sequenza di omicidi, iniziata nel mese di maggio 1989 e proseguita sino al mese di marzo del 1990, commessi da ‘cosa nostra’ in pregiudizio di altri confidenti delle forze dell’ordine, di altri ‘spioni’, ovvero di altri soggetti impegnati in attività di ricerca di latitanti ad un certo punto ritenuti pericolosi per gli interessi della consorteria”.

Così vengono ricordati gli omicidi del “confidente” Giacomo Palazzolo, avvenuto il 24 maggio 1989, e, dunque, appena pochi mesi prima l’uccisione dell’Agostino; nonché, in epoca di poco successiva a tale episodio, alla scomparsa (e successiva eliminazione) di Emanuele Piazza, “cacciatore di latitanti”, avvenuta nel marzo 1990 ed a quella di altro soggetto accusato di essere confidente, impegnato nella ricerca di latitanti, Gaetano Genova, in data 31 marzo 1990.

Giochi pericolosi

Nell’ambito della sua particolare attività investigativa Agostino sarebbe venuto a conoscenza anche di “innaturali” rapporti tra la cosca Madonia (ed anche per quel che riguarda l’imputato Scotto) e rappresentanti delle Forze dell’ordine, in specie dei servizi segreti. Secondo i giudici ciò “risulta confermato da una serie di univoche e convergenti emergenze probatorie”.

E nell’affrontare l’argomento la Corte riconosce la piena attendibilità a Vito Galatolo, collaboratore di giustizia dell’Acquasanta, che ha riferito diversi dettagli sulle figure che “frequentavano” Fondo Pipitone, ovvero il quartiere della sua famiglia. Proprio Galatolo ha indicato Agostino come un soggetto che frequentava vicolo Pipitone “al fine di verificare la presenza di eventuali persone”. Certo è che nel corso della propria carriera professionale, Agostino può essere venuto in possesso di diverse informazioni.

La scorta ad Alberto Volo ed il contatto con Falcone

La Corte, pur non entrando nel dettaglio, definisce “provato” il rapporto tra Agostino ed Alberto Volo (in particolare è stato dimostrato che il poliziotto ha prestato servizio di scorta per l’ex terrorista nero che veniva sottoposto ad interrogatorio da Giovanni Falcone).

Per quanto concerne il rapporto con il giudice Falcone, “seppure, a parere della Corte, non può ritenersi adeguatamente provato un rapporto di diretta collaborazione investigativa” vi è “il dato certo che lo stesso magistrato (…) ebbe a prospettare un possibile collegamento tra la propria attività (anche quella riguardante gli interrogatori di Volo Alberto) e l’uccisione dell’agente Agostino”. Vi era la “piena consapevolezza da parte dello stesso dott. Falcone circa la riconducibilità di tale evento non già ad ambienti di delinquenza comune e comunque legati all’attività, per così dire, istituzionale svolta dall’agente Agostino all’interno del Commissariato di San Lorenzo, bensì la sua riconducibilità a quegli specifici settori criminali che erano oggetto delle proprie indagini. E dunque, un contesto del tutto compatibile con quell’attività di ricerca dei latitanti mafiosi che aveva intrapreso Nino Agostino e che lo aveva avvicinato all’ambiente dei servizi segreti”.

A dimostrazione del dato vengono ricordate le parole riferite dal commissario Montalbano su quanto disse Falcone alla camera ardente per Agostino (“Montalbano vedi che questa cosa di Agostino è una cosa fatta contro di me e contro di te”) nonché la testimonianza del commissario Antinoro che disse di aver incontrato il dottor Falcone presso la Prefettura di Palermo poco tempo dopo l’omicidio, precisando che in tale circostanza il magistrato gli aveva domandato “ma ci potrebbe essere qualche possibilità della morte del poliziotto con la cosa di cui ci stiamo occupando”, con riferimento all’attività di indagine che in quel periodo essi stavano svolgendo in relazione al citato collaboratore Volo.

Il ruolo di Scotto

Ovviamente la sentenza si è concentrata sulle risultanze che mettono in evidenza il ruolo di Gaetano Scotto. E sul punto vengono valorizzate le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Vito Galatolo (che sul coinvolgimento dello Scotto non ha riferito “mere voci coerenti, ma indicazioni precise e puntuali apprese nel contesto familiare mafioso di assoluta affidabilità”) ed Oreste Pagano, mentre solo in parte assumono valore quelle del pentito Vito Lo Forte.

Particolarmente valorizzate le dichiarazioni di Augusta Schiera, la mamma del poliziotto che con Vincenzo Agostino e la sua famiglia ha sempre lottato per la verità.

In particolare la Corte ritiene “certamente attendibile il riconoscimento in fotografia dello Scotto effettuato dalla Schiera” come il soggetto che seguì la famiglia, nel luglio 1989 fino all’aeroporto di Catania.

Tra le “ombre” ricordate sullo Scotto, i suoi contatti “senza spiegazioni” con il centro Cerisdi negli anni delle stragi del 1992.

Aiello-Contrada-La Barbera

Altro aspetto importante sottolineato dalla Corte d’Assise è il “solidissimo quadro probatorio”, offerto dalla convergenza nelle dichiarazioni dei pentiti, sui rapporti tra Madonia e Scotto con rappresentanti delle istituzioni, e in particolare dei servizi segreti, “nonché sulla presenza di taluni di essi in vicolo Pipitone (con riferimento specifico a La Barbera Arnaldo, Contrada Bruno e Aiello Giovanni)”.

Il riconoscimento di Faccia da mostro

Sul riconoscimento di Giovanni Aiello compiuto da Vincenzo Agostino in sede di incidente probatorio del febbraio 2016, indicandolo come uno dei due soggetti che, mentre il figlio Nino era in viaggio di nozze, spacciandosi per colleghi di quest’ultimo, erano venuti a cercarlo presso la sua abitazione, in Villagrazia di Carini, a bordo di una motocicletta.

La Corte pur “senza dubitare della piena genuinità del teste” ha evidenziato le criticità di quello specifico atto per cui “non si consente di pervenire con la necessaria certezza sulla partecipazione di Giovanni Aiello al fatto contestato”.

Poi però aggiunge: “Ciò che tuttavia rileva nel presente processo, e che appare inconfutabilmente provato, è che, sulla base delle molteplici dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e dei riscontri sopra esposti, il predetto Aiello Giovanni – soggetto appartenente ai servizi segreti e certamente vicino al dott. Bruno Contrada – era sovente presente in vicolo Pipitone, anche assieme al predetto Contrada, ed ivi si incontrava con Scotto”.

Per questo accanto alla “sicura matrice mafiosa dell’eccidio” la Corte accenna ad una “comune situazione di fatto” riferibile sempre all’attività svolta da Agostino nel territorio di Resuttana, che evidentemente veniva vista come un pericolo.

La posizione di Rizzuto

Per quanto riguarda la posizione di Francesco Paolo Rizzuto, assolto perché il fatto non sussiste, il giudice ha evidenziato che anche il pm aveva richiesto l’assoluzione (seppur per diverse ragioni). Secondo la Corte “le emergenze in atti, pur offrendo un quadro complessivo comunque inquietante, che vale a connotare di una certa ambiguità la posizione del Rizzuto, tuttavia non offrono prova certa di una condotta oggettivamente elusiva delle indagini e, tantomeno, di una sua precipua volontà favoreggiatrice”.

Si vedrà ora se le parti, dopo la lettura delle motivazioni, ricorreranno in appello.

Fonte: ANTIMAFIA Duemila


https://liberatestardi.websitefortest.uk/2025/09/19/i-familiari-di-antonino-agostino-e-ida-castelluccio-ricorrono-alla-corte-europea-dei-diritti-delluomo/

https://liberatestardi.websitefortest.uk/2024/10/09/processo-agostino-nino-morana-oggi-nonno-vincenzo-avrebbe-tagliato-la-barba/

https://liberatestardi.websitefortest.uk/2024/07/09/omicidio-agostino-motivazioni-sentenza-madonia-sul-delitto-depistaggio-istituzionale/