Asinara, l’ex carcere voluto da mio padre dove tutto è via Lattea

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Dice che il nome lo deve alla quantità fiabesca degli asini che la popolano.

Ma poiché sarebbe troppo facile, si è aperto il classico “dibattito”. E si è deciso che il nome venga dalla quantità, altrettanto grande, delle insenature, versione ovviamente preferita dai locali. Così all’inizio fu “Insula Sinuaria”. E salomonicamente Wikipedia spiega che il nome d’oggi è un’evoluzione delle due versioni.

Ma è solo un dettaglio curioso per parlare di un’isola che ha inflitto reclusioni implacabili e liberato sogni nella contemplazione di ciò che di più bello la natura possa donare a essere umano.

E siccome il “Fatto” non mi ha chiesto un reportage ma una “lettura” da un luogo della mia vacanza, vi dirò che il mio rapporto con l’Asinara iniziò per interposta persona nel 1977, quasi mezzo secolo fa.

Ero allora giovanissimo assistente di sociologia alla Bocconi, e come tutti i giovani di allora (oddio, almeno quelli non gonzi), molto mi occupavo di quanto succedeva nel mio Paese.

Mi attanagliava un incubo, quello del terrorismo, che stava mettendo un’ipoteca sul modo in cui l’Italia si sarebbe potuta atteggiare di fronte al groviglio di stupore sbigottito (le stragi, la corruzione) e di speranze (le riforme, l’avanzata della sinistra) che ci stava davanti. Andò esattamente come alcuni di noi temevano. Una inutile e dolorosa carneficina e un passo indietro della nostra democrazia.

Conobbi l’Asinara allora. Quando per recidere il cordone ombelicale tra terroristi e carcere, i detenuti per brigatismo vi vennero concentrati in strutture detentive di massima sicurezza. Perché era praticamente impossibile scappare. Perché il cosiddetto “sardomutismo” non concedeva segreti al nemico, né per colpire né per intimidire. E le “guardie” -ancora così si narra- erano incorruttibili.

Ebbene, mio padre, allora generale dei carabinieri, era stato incaricato di garantire la sicurezza esterna delle carceri, trasformate dai terroristi in una groviera di Stato. E proprio lui progettò quella funzione speciale per l’isola. Fecero su di lui anche delle vignette, in divisa a cavallo di un asino (di una delle quali, da lui richiesta all’autore, conservo una copia).

Passò un po’ più di un decennio. Poi l’isola tornò come un turbine nel mio orizzonte. Finiti o quasi i terrorismi, arrivarono infatti le stragi di mafia. Falcone e Borsellino.

Di nuovo lo Stato, anche sulla scorta di quella esperienza, ricorse all’Asinara. I boss abituati a brindare a champagne in carcere ai propri assassinii vennero mandati d’improvviso in una notte a Pianosa e all’Asinara. E i coraggiosi partigiani di Cosa Nostra parlarono a valanga. L’Asinara e le sue “guardie” di nuovo a difesa della democrazia.

Avevo dunque un’immagine dell’isola densa di storia dura, quando nel 2013 ci portai diciotto studenti per la primissima esperienza di “università itinerante”. Certo le carceri, di Cala d’Oliva e di Fornelli, i poster penzolanti, la cella di Raffaele Cutolo, la enorme stanza di Riina al 41 bis. Racconti locali. Ma soprattutto una bellezza sconvolgente, i colori con una tonalità speciale, il blu Asinara, il rosso-aurora Asinara. Notti profonde contro cui la storia politica nulla può.

Se ci venite una volta (ma sappiate che l’isola regola drasticamente le possibili presenze notturne), sdraiatevi su un molo e fissate il cielo intensamente, con tutta la complicità che potete. E vedrete che, come amo ripetere, qui la via Lattea non esiste. Perché il cielo è tutto via Lattea. Quella che conosciamo noi prende forma all’Asinara solo verso le quattro del mattino.

Perciò quei diciotto studenti se ne ripartirono in lacrime. Proprio come quelli (diversi, e diventati 25) che mi portai nel 2017. Proprio come i ricercatori e colleghi che ho riunito per un seminario residenziale nello scorso maggio, in uno di quei trionfi di giallo che danno alla Sardegna uno scintillio leopardiano.

Qui tutto si salda. E sarebbe bello se la cura che ci mette la natura a ripetere le sue stagioni la mettesse l’uomo a fare di quanto vi ho raccontato (anche di quelle carceri, sissignori) un patrimonio storico come Dio comanda. Già, e meritoriamente, l’uomo resiste a chi vorrebbe devastare questo paradiso e farci strade e alberghi, “ben curati”, “niente turismo di massa”.

Posso assicurare che il Parco nazionale offre infatti una strepitosa biodiversità animale e vegetale, che una ex giovanissima “guardia” dei tempi lontani, Giammaria Deriu, spiega con entusiasmo sapiente agli ospiti istituzionali, riconoscendo maschio e femmina di ogni specie animale a distanza di centro metri. Solo qui ho visto asini dormire sulla strada sotto le stelle, con la certezza che “i nostri” non arriveranno.

Perché sono di nuovo qui? Perché qui non si è mai soli, anche se non si ha mano di donna da tenere. Perché il 24 si presenterà il libro che il direttore dell’Ente Parco, Vittorio Gazale, ha scritto su questa storia stupefacente (niente titoli; devo evitare ogni forma di propaganda).

E perché nelle sere di agosto mi incanta la musica che Daniela Cossiga intona per duecento turisti venuti in battello sul molo mentre il tramonto disegna sui crinali delle alture i profili dei cavalli. Poi finisce. Poi è via Lattea ovunque.

Fonte: Il Fatto Quotidiano, 13/08/2025


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