Basta con Garlasco e il sangue in tv: l’Agcom si faccia sentire

Garlasco

“Avvocato Lovati: incarico revocato e denti nuovi in Albania”. È il titolo autentico visto in onda qualche settimana fa, durante uno dei mille “approfondimenti” che le tv hanno dedicato a Garlasco. Ma dell’ormai ex legale di Andrea Sempio abbiamo potuto conoscere persino la camera da letto in un racconto gonfiato dove si spaccia per notizia anche il dettaglio più insignificante.

Ha fatto dunque benissimo Giandomenico Crapis, il 14 novembre, a denunciare “la serialità malata che si sta impossessando come un demone della tv italiana”. E correttamente ricorda che già nel 2008 l’Agcom aveva avvertito il pericolo di questo debordare dei processi in tv, della rischiosa sovrapposizione al lavoro di inquirenti e magistrati, e perciò aveva chiesto alle tv di arrivare ad un codice di autoregolamentazione: anche dietro forte impulso del Presidente Napolitano, che in ripetuti interventi pubblici aveva fatto esplicitamente avvertire il suo fastidio per questa spettacolarizzazione.

Posso integrare la ricostruzione di Crapis con una testimonianza personale, perché quel Codice fu sottoscritto nel maggio 2009 da Rai, Mediaset, Telecom Italia Media (all’epoca proprietaria de La7), dalle associazioni di tv Frt e Aeranti-Corallo, dall’Ordine dei Giornalisti e dalla Fnsi, il sindacato di categoria di cui ero presidente.

E per vigilare sulla sua applicazione venne insediato un Comitato, composto da rappresentanti delle sigle firmatarie e da tre esperti nominati dall’Agcom: “destinatarie delle misure correttive saranno le emittenti, mentre per i giornalisti eventualmente coinvolti la competenza resta riservata all’Ordine”.

Ma di sanzioni non ce ne furono, anche perché le emittenti da subito vollero che gli interventi – per dirla con terminologia giuridica – “non venissero percepiti come forme coercitive”. Perciò ci si limitò a raccomandazioni, a nobili appelli privi di conseguenze. Ma le frasi scritte allora potrebbero essere applicate alle cronache di oggi senza dover modificare una virgola.

Il 2010 fu l’anno del delitto di Avetrana, che dette luogo ad “una copertura mediale eccessiva e ridondante”, “una serialità comunicativa esasperata” nella quale “in assenza di aggiornamenti sostanziali delle notizie, si alimenta gratuitamente l’interesse e l’ansia del pubblico”.

Mettete il nome di Chiara Poggi al posto di Sarah Scazzi e il risultato non cambia. L’anno dopo ci fu il processo d’appello per l’omicidio di Meredith Kercher, il delitto di Perugia, e il Comitato stigmatizzò “un giornalismo televisivo che sembra compulsivamente attratto da un’ipertrofica attenzione per la cronaca nera”, con una “percepibile confusione di ruolo tra conduttori televisivi e giudici”, mentre “nello stato di diritto la sede del processo penale è il tribunale e non la televisione”.

Dopo tre anni di raccomandazioni il Comitato si spense. Nessuno ne aveva decretato la fine, ma evidentemente lo scarto tra le ambizioni iniziali e i risultati ottenuti aveva frustrato ogni buona intenzione. Però il problema rimane lì, con tutta evidenza, come Garlasco si incarica di ricordarci da mattina a notte inoltrata, passando per pomeriggi sempre densi di sangue.

Ignorarlo non si può: ne rimango convinto anche oggi, da consigliere di amministrazione Rai che nei mesi scorsi ha ripetutamente criticato la sproporzione di tempi dedicati a drammi che travolgono intere popolazioni e a pur tragici fatti privati.

C’è una responsabilità del servizio pubblico che dobbiamo saperci assumere. Ma è utile che sul tema torni a ragionare tutta l’emittenza, magari per innescare un virtuoso “disarmo”.

L’Agcom potrebbe riconvocare i soggetti di allora e – facendo tesoro dei fallimenti di ieri – chiedere impegni più seri e stringenti. Perché non provarci?

* Consigliere di amministrazione della Rai

Fonte: Articolo 21