Croce e delizia del mondo. Città del Messico è così.
Fai riunioni per aggiornarti sulla mappa dei cartelli dei narcos, sulla terribile contabilità dei desaparecidos, per decidere le forme di impegno comune perché il mondo non è esattamente quello che hai sotto casa, e poi d’improvviso ti appare il suo rovescio. L’allegria delle famiglie strabordanti di bambini che giocano e ballano, un museo della Costituzione che l’Italia si sogna, o quello della tolleranza che si riempie di giovani quando arriva un oratore dei diritti.
Finché accade il miracolo pure nella polizia. La quale qui è meno amata che in Italia (dove qualcuno, chissà perché, fa di tutto per renderla sempre meno “prossima” ai cittadini). E le forze dell’ordine -lo si impari, lo si impari…- soffrono molto lo stato di sfiducia cresciuto con l’esibizione voluttuosa della loro forza militare. Così l’Accademia della Polizia di Città del Messico ha ideato un corso di formazione per i nuovi agenti su un tema d’avanguardia anche per noi: l’etica e la cultura professionale. Al quale l’università di Milano (con me anche Thomas Aureliani e Annaclara De Tuglie) ha avuto l’orgoglio di essere invitata per tenervi circa la metà delle lezioni.
Un’esperienza emozionante. Sei nel paese dove tutti gli osservatori internazionali e gli studiosi accusano le divise di praticare un livello di corruzione insostenibile, di essere state spesso complici o protagoniste di episodi di sparizione forzata. Immagini perciò di dovere fare uno sforzo improbo o inutile e invece vedi una platea di giovani in divisa che seguono concentrati ogni parola, annuendo vistosamente soprattutto quando sottolinei il rapporto ontologico, di necessità, tra il loro compito e il senso dello Stato.
Quando racconti la resistenza dello Stato agli assalti del terrorismo e della mafia. Vedi come tutto diventi nella loro immaginazione il “treno dei desideri” di Celentano. L’indipendenza della magistratura (qua i magistrati sono stati appena eletti dal popolo), la legge Rognoni-La Torre, il riuso sociale dei beni confiscati, la rivolta civile delle scuole, i simboli leggendari dell’antimafia. Per loro, sogni da accarezzare.
Alla fine tante domande. Per scoprire progressivamente che qui manca, e non solo a chi è in platea, qualcosa che noi abbiamo, ancora prima delle leggi. Mancano i grandi testimoni in cui tutti possano riconoscersi. Intorno a cui, dice un agente, “possiamo costruire il senso dello Stato”. Ed è come aprire la strada a un’affermazione/ confessione che tanto fa pensare: “non abbiamo gli eroi”.
Ecco, rileggiamolo: voi avete gli eroi, noi no. Nonostante un’infinità di vittime innocenti. Ripenso ancora una volta a quella cantilena “pacifista” che vuole negare lo status di eroe a chi è caduto sulle trincee più dure, perché “come diceva Brecht, beato il popolo che non ha bisogno di eroi”. Ed ecco qui la conferma dal paese più insanguinato. Sarà pure; ma, quando occorrono, guai a non averli.
Così li isoleremmo su un piedistallo? Ma niente affatto. Perché ci sono anzi altri grandi che noi, proprio noi, dovremmo sapere vedere nella nostra azione quotidiana.
Voglio in proposito ricordare ai lettori del “Fatto” un grandissimo preside di Oristano, Pino Tilocca, innovatore e formatore di migliaia di giovani nei licei in cui insegnò.
Quando era sindaco di Burgo la criminalità locale gli assassinò il padre con un attentato dinamitardo. Non si fece intimidire e resistette con la meravigliosa tenacia dei sardi.
Il mattino dello scorso 4 ottobre ha fatto un discorso appassionato alla manifestazione per la pace e la Palestina. Teso, elettrico, da soverchiarne la vigoria fisica di sempre. La notte un infarto fulminante lo ha tolto alla Sardegna, ai suoi studenti e al movimento antimafia.
Lo ricorderemo sempre, questo è il punto -e io con affetto-, senza perciò privarci dei simboli che stanno nel cuore della storia della Repubblica.
Fonte: Il Fatto Quotidiano, 13/10/2025



