Cittadinanza, una questione di inclusione e giustizia

Referendum cittadinanza

L’8 e il 9 giugno il referendum per ridurre i tempi d’acquisizione, condizione necessaria per un Paese che punti alla convivenza e all’integrazione reciproca tra “vecchi” e “nuovi” italiani. Tenuto conto che un accesso più rapido non attirerebbe più immigrazione.

Il referendum sulla riduzione dei tempi per l’accesso alla cittadinanza italiana – da dieci a cinque anni – chiama in causa importanti questioni: l’idea di comunità nazionale, la visione del futuro, la concezione della giustizia.

Siamo a chiamati a decidere se vogliamo allargare l’istituto della cittadinanza per includere in modo più rapido chi vive qui ormai da anni, chi lavora regolarmente (2,4 milioni di persone), paga le tasse, manda i figli a scuola (930 mila alunni formalmente non italiani negli istituti di ogni ordine e grado). Le questioni dell’inclusione e della giustizia risaltano in modo particolare pensando a questi ultimi: ragazzi e ragazze che frequentano le scuole fianco a fianco con i loro compagni di origine italiana, studiano per centinaia di ore all’anno lingua italiana, letteratura, storia, educazione civica, ma si sentono chiudere le porte dell’appartenenza. Devono ragionare e comportarsi da italiani, ma non possono esserlo. È difficile che una postura istituzionale così schizofrenica prepari un buon terreno per la convivenza e l’integrazione reciproca.

Quanto agli adulti, la giusta richiesta di rispetto delle leggi, di conoscenza della lingua, di assolvimento dei doveri civici, si scontra con il fatto di non poter concorrere alla determinazione di quelle leggi che poi devono osservare, anche dopo anni di soggiorno e di lavoro sul territorio. È la più comune forma di tirannia, come ha notato Michael Walzer, filosofo della politica statunitense: quella per cui solo alcuni, fossero anche la maggioranza, hanno il potere di decidere per tutti.

Le obiezioni alla riforma fanno ricorso a vari argomenti, ma soprattutto a un senso di minaccia nei confronti di un aumento dell’immigrazione, della sua diversità culturale, del suo radicamento sul territorio. Va ricordato che in Italia il numero degli immigrati è sostanzialmente stazionario da una quindicina d’anni, che più della metà sono donne, quasi la metà europei, la maggioranza proviene da Paesi di tradizione culturale cristiana. Un quadro ben diverso dall’immigrazione raccontata.

Quanto a rilievi più sostanziali, va ricordato che la riduzione dell’attesa a cinque anni non comporterebbe nessun automatismo. Come avviene ora, bisognerebbe sempre dimostrare conoscenza della lingua italiana, assenza di condanne penali, assolvimento dei doveri fiscali. Se si volesse rendere più meritocratica l’acquisizione della cittadinanza, bisognerebbe farlo nei due sensi: cioè riducendo i tempi per i bravi studenti, per chi ha imparato l’italiano, per chi s’impegna nel volontariato e nell’associazionismo.

Non è neppure vero che un più rapido accesso alla cittadinanza attirerebbe nuova immigrazione. Hanno un tempo di attesa di cinque anni nove Paesi su 15 della vecchia Unione Europea: Germania (che ha ridotto i tempi nel 2024), Francia, Portogallo, Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo, Svezia, Malta e Irlanda. Austria e Finlandia ne richiedono sei, Grecia e Cipro sette. La Danimarca arriva a nove, la Spagna a dieci come noi, ma li riduce a due anni per chi arriva da Paesi di tradizionale influenza spagnola, e ha norme molto favorevoli per i nuovi nati. In nessuno di questi Paesi la riduzione dei tempi per l’acquisizione della cittadinanza ha fatto aumentare l’immigrazione, che dipende da molti altri e più incisivi fattori.

Quanto al fatto che in Italia siano numerose le naturalizzazioni (intorno alle 200 mila all’anno ultimamente), già oggi, con le leggi attuali, bisogna individuarne la causa: oltre ai discendenti di antichi emigrati italiani, che hanno una corsia privilegiata, sono giunti a maturare i requisiti i numerosi immigrati regolarizzati nel primo decennio di questo secolo, paradossalmente a opera di governi di centro-destra (quasi un milione, a cui poi sono seguiti i ricongiungimenti familiari). Rischiamo di sommare un’ingiustizia (la lunga attesa prima di poter chiedere la cittadinanza) a un’altra ingiustizia (il mantenimento della regola dei dieci anni).

C’è persino chi ha evocato il rischio banlieues, come argomento per chiudere le porte alla riforma. Ma i ghetti e le rivolte non si contrastano alimentando il risentimento e il senso di esclusione. Una più rapida acquisizione della cittadinanza non è una bacchetta magica, potrebbe non bastare a produrre l’integrazione desiderata, ma certamente è un passo importante nella giusta direzione.

* Docente di Sociologia dei processi migratori e Sociologia urbana all’Università degli Studi di Milano

Fonte: Chiesa di Milano