Dopo Mamdani. Forse verrà il momento in cui torneremo a parlare il nostro italiano

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È dunque Mamdani. Azzardo una previsione: che le conseguenze saranno molto più ampie di quanto si pensi, e non solo sul piano strettamente politico. Ma anche su altri. Per esempio quello linguistico. E proverò a spiegarmi.

Negli scorsi mesi è successo un fatto importante. Un gruppo di reputate riviste scientifiche ha posto un problema tipico del nuovo secolo: se sia cioè fondata la pretesa dell’editoria accademica che i contributi degli autori siano scritti in inglese. Pretesa che va a nozze con la capricciosa abitudine di considerare di valore superiore i risultati di ricerca pubblicati in quella lingua. Perché?, si chiedono le riviste. Perché accettare passivamente l’eredità di un’epoca, la seconda metà del Novecento, che vide prevalere incontrastato l’imperialismo economico americano?

Lasciamo pure da parte tutte le conseguenze pratiche di bassa cucina che ne sono derivate, a partire da certe carriere parassitarie (l’amicizia con il caporedattore di una rivista gallese che fa più titolo della qualità di una onesta ricerca pubblicata in portoghese o tedesco). E andiamo al sodo della questione.

Vi fu un tempo in cui si pensò che la supposta fine delle ideologie più la globalizzazione avrebbero costretto tutti gli ambienti scientifici a uniformarsi alla supremazia dell’inglese, esattamente come nel secolo precedente le diplomazie si erano acconciate alla supremazia del francese. Il che nell’Italia millenaria terra di conquista, e nelle nostre università, si è verificato in forme senz’altro più acute (per restare all’Europa) che non in Spagna, Francia o Germania.

Ma oggi che il mondo  degli alti studi e della ricerca non è più  riducibile -se mai lo è stato- a quello anglofono, la domanda posta dai “ribelli” diventa fondamentale: perché l’intera comunità scientifica mondiale dovrebbe parlare e scrivere nella lingua madre di una sua stretta minoranza? Forse una ragione demografica? No, perché oggi tra le lingue europee quella più parlata al mondo come lingua madre è lo spagnolo. Una ragione di di egemonia economica? Nemmeno.

Oggi la Cina si avvia a competere con gli Stati Uniti e a sopravanzarli in almeno due continenti. Fu un mio amico manager a segnalarmi alcuni anni fa il cambiamento in corso. Durante un viaggio in Cina si accorse che gli interlocutori locali capivano perfettamente l’inglese ma rifiutavano di usarlo come lingua per la conversazione, esigendo la presenza degli interpreti. La delegazione cinese non si assoggettava a parlare l’inglese (come invece la delegazione italiana) per orgoglio ma più ancora per consapevolezza della propria forza.

E oggi la strategia trumpiana per rendere l’America di nuovo “grande” non inverte la tendenza; non sembra cioè affatto spingere i cittadini del mondo verso una lingua che trasuda, nel suo uso pubblico, minacce e divieti. L’inglese e Shakespeare, il francese e l’illuminismo, il tedesco e la filosofia, l’italiano e la poesia, l’America e le libertà. Ma ora?

Quale forza di attrazione verso la Cina o i paesi arabi? O verso gli studenti delle università di tutto il mondo? Quanto a noi italiani, siamo il paese dotato dell’immenso patrimonio della lingua latina, che ha innervato anche il tedesco e l’inglese. Eppure siamo stati capaci per istintivo servilismo (o forse anche per ignoranza del latino) di trasformare in parole inglesi le parole dei nostri antenati.

Avete notato in quanti convegni e conversazioni amicali troviamo un italiano che invece di dire che il tale talento o pregio è un “plus” della tale persona o azienda o istituzione, dice “plas”, esattamente “plas”, americanizzando compiaciuto la propria lingua? L’hanno chiamata internazionalizzazione.

Ma ora fra Trump e Mamdani tutto cambia. Non solo la lingua dell’impero può declinare mentre alza la voce ma addirittura la democrazia americana può portare al potere culture e religioni altrui. Un bell’inghippo, o no?

Fonte: Il Fatto Quotidiano, 10/11/2025