Leggo sempre più spesso che questo non è un paese per i giovani. E condivido. Ma vorrei aggiungere, a nostro smacco ulteriore, che i giovani si vendicano di questa incuria nel modo più nobile possibile.
Non provando sentimenti di vendetta verso gli anziani, né seguendo la storica esortazione a “rottamarli”. Anzi sono ripetutamente testimone dei loro sentimenti di gratitudine verso gli anziani da cui hanno ricevuto qualcosa. Ne ho già scritto in passato.
Volete sapere a chi dedicano le proprie tesi di laurea gli studenti universitari? Soprattutto ai nonni. A un nonno, a una nonna, a tutti e due insieme. A loro vivi, a loro che non ci sono più. A loro che “mi hanno insegnato”: la lealtà, l’importanza della fatica, l’amore per la vita, la generosità. Eccetera. La perdita di un nonno non è mai “solo” un doloroso accidente familiare, ma è origine di vuoti e di sensi di solitudine, che chiede faticosi periodi di adattamento. Credo che il fenomeno sfugga a tutti, forse perché nemmeno alcuni miei colleghi ne colgono il valore.
Un paio di mesi fa ho dunque ricevuto la visita di una giovanissima studentessa desiderosa di fare una tesi su mafia e cultura. Volevo usare un nome di fantasia, magari antico (come non se ne trovano nel mio elenco di Cecilie, Chiare, Giade e Alici). Ma mi ha autorizzato lei a fare quello vero. Si chiama Matilda. Con la “a” finale. Voleva laurearsi a luglio, aveva fretta. Probabilmente per sue ragioni. Chissà: un viaggio, un Erasmus, o l’inizio di un lavoro. Vai a sapere…
Così dopo alcune settimane mi ha portato un “elaborato”, come si dice, già fatto e concluso. E la cosa mi ha irritato. Le tesi si fanno insieme. Si dialoga, ci si confronta, le dico. Le ricordo una bravissima studentessa sarda con cui avevo passato una volta quasi mezzo pomeriggio a discutere delle sue teorie sulla criminalità organizzata nella Sardegna di oggi.
Le dico che la tesi è chiaramente copiata o, più probabilmente, fatta con l’intelligenza artificiale. Ci sono perfino i ringraziamenti per me e per le mie “preziose intuizioni” quando proprio non ne abbiamo mai parlato. Ci sono in bibliografia miei libri che non ho mai scritto. E viceversa libri miei che sono attribuiti a qualcun altro. Ne chiedo conto.
Chiedo, piuttosto sicuro, se le frasi di quel capitolo sono state riprese da quel mio giovane collega preparato e appassionato ma che scrive “strano” (e inconfondibile) come se fosse in un film di Verdone.
Lei conferma. D’improvviso tace, ci pensa un po’, sta chiaramente decidendo qualcosa. Alla fine il colpo di scena: prof, la prego di scusarmi, ma io rifaccio tutto da capo. Ricomincio, posso? Un lampo, un indimenticabile lampo di orgoglio nei suoi occhi, al diavolo i trucchi per fare presto.
Leggo la voglia di un riscatto repentino ai miei occhi e credo anche ai suoi. Le spiego che il tempo è poco anche per una tesi triennale, mi giura che ce la metterà tutta, “non dubiti del mio impegno, farò l’impossibile”. A questo punto non posso non chiederle perché non si prenda un tempo più lungo, perché non sposti la tesi all’autunno, ormai le tasse le ha pagate.
“Mio nonno”, mi risponde commossa. Mi spiega che il nonno e la nonna erano unitissimi, e che la nonna se ne è andata pochi mesi fa. Che vuole essere sicura che almeno il nonno possa vederla quando si laurea, possa essere lì per la proclamazione quando amici e parenti la applaudiranno. “Mio nonno, mi ha quasi cresciuto lui”, confessa. E aggiunge: “lui non ha potuto studiare molto”.
Concordiamo che quel giorno verrò a salutare l’anziano da lei tanto amato e che andremo tutti a un caffè dove potrò parlargli bene della nipote (“se lei se lo sarà meritato”, aggiungo). Ora Matilda è impegnata nella sua affettuosa gara contro il tempo. Mi ha scritto che non avrebbe mai creduto di appassionarsi tanto alla materia, che la vuole studiare anche dopo.
Che cosa non può l’amore per i nonni.
Fonte: Il Fatto Quotidiano, 16/06/2025



