C’era una volta, 40/50 anni fa, una sostanziale omogeneità (consapevole o meno) di molta parte della magistratura con il sistema politico. Per lustri ciò ha prodotto omissioni, insabbiamenti, avocazioni, competenze sottratte, connessioni ardite e molti altri artifici, pur di non turbare gli assetti di potere esistenti.
Una stagione di “politicità” massiccia a senso unico, incompatibile con un indipendente esercizio della giurisdizione, falsamente contrabbandata come neutralità. Una stagione dalla quale la magistratura ha cercato di affrancarsi con una lunga marcia verso una reale indipendenza.
A questa stagione si rischia ora di regredire con la riforma costituzionale della separazione delle carriere fra pm e giudici, fortemente voluta dal governo Meloni. Chi si batte per la separazione sostiene che i giudici non controllano con sufficiente rigore l’operato dei pm perché sono colleghi, tant’è vero che prendono insieme il caffè al bar!
Questo “connubio incestuoso” consentirebbe all’accusa di condizionare i giudici: solo una separazione li affrancherebbe, arginando lo strapotere dei pm. Affermazione carica di suggestioni, ma ingiustificata: se nel processo fosse necessaria una eterogeneità di estrazione di carriera tra controllori e controllati, a essere separate dovrebbero essere anche le carriere dei giudici dei diversi gradi: di cassazione, di appello e di primo grado. E ciò perché i rapporti tra i giudici dei vari gradi di giudizio sono ben più forti di quelli fra pm e giudici.
Per coerenza di “separazionismo” si dovrebbero dunque prevedere, alla fine, ben 4 diversi concorsi, 4 diversi Csm, 4 diverse carriere per pm, giudici di Tribunale, magistrati di appello e cassazionisti! Un’assurdità, che però inficia in radice la “filosofia” stessa della separazione delle carriere e ne tradisce la vera finalità.
Siamo convinti che separare le carriere comporterebbe lo sganciamento del pm dalla cultura della giurisdizione, facendone inesorabilmente un funzionario del governo tenuto ad adempierne le direttive. Perché una cosa è certa: ovunque vi sia una qualche declinazione della separazione delle carriere le cose funzionano così.
Eppure (si osserva) la separazione vi è anche in Paesi di indiscutibile caratura democratica. E allora onestamente diciamolo: del problema separazione delle carriere potremo eventualmente parlare, senza temere che si risolva in una tagliola per i pm scomodi perché indipendenti, quando la nostra politica saprà bonificarsi da quelle componenti ancora oggi compromesse con fatti di corruzione o di malaffare.
E soprattutto quando vi saranno adeguate garanzie per impedire che la politica influenzi i pm. Altrimenti mettere il pm, di fatto, alle dipendenze del potere politico del momento (non interessa di che colore) sarebbe come spalancare l’ovile al lupo. Conviene al nostro Paese?
Se poi tornassimo indietro nel tempo, ricorderemmo che nel 1982 venne sequestrata una valigetta con dentro il “Piano di rinascita democratica P2” redatto da Licio Gelli, gran maestro appunto della loggia massonica P2. In questo piano, lungo e dettagliato, è inserito “l’obiettivo a medio e lungo termine” di “separare le carriere requirente e giudicante”. Un marchio d’infamia, una ragione in più per respingere la riforma.
Per concludere, sgombriamo il campo da un equivoco ancora diffuso: la separazione delle carriere è cosa ben diversa dalla separazione delle funzioni, che nel nostro sistema esiste già da tempo.
È chiaro a tutti infatti che si devono evitare commistioni improprie. È intuitiva l’inopportunità che chi è stato pm compaia il giorno dopo come giudice nello stesso tribunale davanti al quale ha esercitato per anni funzioni requirenti (o viceversa).
E infatti per transitare da una funzione all’altra è oggi previsto un articolato sistema di controlli di professionalità e di incompatibilità territoriali, che di fatto hanno reso il fenomeno pressoché numericamente inesistente.
Fonte: La Stampa



