Ricordate Maradona quella sera dell’8 luglio 1990? Basta essere stati bambini allora per ricordarsela. Finale dei Campionati mondiali di calcio a Roma: Germania-Argentina.
Con l’Argentina che aveva eliminato fortunosamente l’Italia alle semifinali. Per questo quando vennero suonati gli inni nazionali il pubblico dell’Olimpico iniziò a fischiare quello argentino. Le telecamere ripresero il labiale di Diego Armando Maradona con gli occhi inumiditi per la rabbia: “hijos de puta”, si lesse senza possibilità di equivoco sulle sue labbra di neo campione d’Italia. Lo ripeté più volte, accecato da un sentimento profondo di rabbia e amore.
Hijos de puta. È la stessa espressione che recentemente ha usato con me un politico sudamericano verso i giudici del suo paese. Qualcuno dei quali arresta e incarcera e lascia in carcere persone per bene colpevoli di esporre liberamente le proprie opinioni, o di scrivere notizie sgradevoli. Tante persone, troppe persone perché il recinto umano che quei giudici amministrano possa chiamarsi “repubblica”.
In quella imprecazione ho trovato lo stesso impasto di rabbia (verso chi usa della sua funzione con tracotanza impudica) e di amore (verso il proprio paese). Ci ho riflettuto. Mi ha colpito quella imprecazione sulle labbra di una persona sempre misurata, e disposta a comprendere le ragioni altrui. Quasi che fosse l’unica veramente all’altezza della hybris che si è costretti a subire.
E confesso che ne sono stato come conquistato. Forse perché quella lingua è parlata in mezzo mondo e regola le relazioni umane nel continente più martoriato del crimine, con le città che -fuori da ogni guerra- contano il maggior numero di morti ammazzati all’anno, con percentuali di impunità che veleggiano oltre il 90 per cento. Forse perché, alla fine, non si può chiedere a nessuno di misurare le parole verso chi non misura i fatti e le malefatte che compie.
E così, per una di quelle vertigini di pensiero da cui ogni tanto siamo presi, mi sono chiesto quante persone abbia conosciuto nella mia vita responsabili di viltà e ingiustizie “senza misura”. Sempre però armate della pretesa che le vittime delle loro nefandezze usino misura, e molta, moltissima misura nelle loro parole.
Hijos de puta pronti alle rappresaglie feroci, a imporre trasferimenti sfasciafamiglie, a porgere querele temerarie alle quali schiene e menti complici si piegano perché un pochino pochino, portano anch’esse in sé un granello di hijo de puta.
E poiché il pensiero, quando vola, vola davvero, mi è anche venuta una fantasia non sfrenata, ben delimitata però dal campo di osservazione propostami dall’ amico politico sudamericano: quello della giustizia (perché di giustizia con lui parlavamo). E ho fatto mentalmente un ripasso scrupoloso.
Ho conosciuto giudici meravigliosi per coraggio, lealtà e cultura. Quelli di cui un paese, se fosse fortunato, riempirebbe i suoi tribunali e i suoi uffici investigativi. Quelli per i quali la legge è tutto, e loro, con le loro simpatie, antipatie e ambizioni, non sono nulla. Quelli che insegnano ad amare la giustizia, gli oggetti del desiderio del mugnaio di Brecht.
Ma ho conosciuto anche i loro contrari, e purtroppo nella mia percezione di navigatore della vita non sono stati pochissimi. Superficiali, indisponibili a studiare le carte, disponibili invece a conformarsi ai desideri del potere. Pronti a impermalirsi e a vendicarsi per le ragioni più imperscrutabili al comune mortale. Innamorati del quieto vivere ma anche delle fanfare.
Ecco, mi è venuto in mente che imprimere con leggerezza nella nostra memoria collettiva i loro nomi sarebbe opera di giustizia e di storia, anche perché a volte li si riincontra senza ricordarne le imprese. E non è giusto. Senza indirizzare loro parole fuori misura.
Ma perché quella imprecazione castigliana non abbia più ragione di esplodere sulle labbra delle persone oneste.
Fonte: Il Fatto Quotidiano, 27/10/2025



