“Incestuosi. Ma sono incestuosi”. Così urlò indignato poche sere fa un imprenditore marchigiano (agricoltura biologica) assistendo con me a uno dei tanti talk-show televisivi.
Voleva dire che gli interlocutori che si facevano le moine davanti a noi appartenevano a una medesima famiglia, come uniti da quei legami parentali tipici di un gruppo chiuso. Parlando del più e del meno eravamo giunti infatti al secondo talk show in cui si ripeteva esattamente quel tipo di presenze: risapute, reiterate, obbligate, da classico “inner circle”.
Sulle prime l’accusa, “incestuosi”, mi parve spropositata, anche terminologicamente impropria. Poi ci ho riflettuto. Dice il vocabolario, premettendo che il termine designa un rapporto “impuro”, che l’incesto è una relazione sessuale tra persone unite da uno stretto vincolo di parentela. E in effetti il mio compagno di serata intendeva in senso metaforico proprio questo.
Insomma, i talk show come mondo recintato e regolato da chissà quale altro principio di inclusione/esclusione che non sia l’appartenenza a una comune famiglia. In cui naturalmente vengono previsti anche giochi delle parti. Come il giovane rapinatore si trova davanti il poliziotto buono e quello cattivo, così il telespettatore si trova davanti il saggio e lo scavezzacollo, il destro e il sinistro, la signora elegante e quella un po’ sguaiata, il trumpiano e l’anti-americano.
Figurine buone per tutte le recite. Ciascuna delle quali, in genere, ha scritto un libro o ha fatto un nuovo film. Con complimenti reciproci. Fanno parte di una stessa famiglia e tra loro fornicano mentalmente.
L’urlo dell’imprenditore nasceva insomma da una reazione istintiva. La noia, l’insofferenza per il già visto e il già sentito. Gli imprenditori veri, si sa, amano il cambiamento. Tutto ciò che sa di pigrizia e di accidia entra in rotta di collisione con la loro mentalità di innovatori, come a torto o ragione si considerano.
Amano anche la competenza, ed è difficile che una persona possa essere competente in più campi. Forse in due sì, ma certo non in cinque o sei o sette. Hanno poi tra i loro incitamenti preferiti quel “poche chiacchiere” che sotterrerebbe quasi tutti i talk show sulla faccia della terra.
È un argomento che ho trattato in molte conversazioni private ma anche in alcuni dei dibattiti a cui partecipo, tra università, convegni e associazioni varie. Ma quella parola dirompente, “incestuosi”, mi si è ficcata nella mente. E mi mette ora sotto una luce nuova quella molteplicità di relazioni (contenuta molteplicità, intendiamoci) che seleziona le parole a cui viene data la possibilità di giungere fino a me.
Nella giornata in cui scrivo queste “storie italiane”, per esempio, ho già sentito -e sono ancora le cinque del pomeriggio- due voci interessantissime che in tivù non sentirò mai. Ho fatto un esame a un signore agli arresti domiciliari che lucidamente mi ha spiegato concretamente perché in carcere ha deciso di studiare la mia materia, e quanto abbia inciso sulle sue disavventure avere vissuto in una regione del Nord che pretende di essere vergine di presenze mafiose. Spiegandomi anche come abbia scoperto le imprese sorte sui beni confiscati, sulla cui attività ha portato un pezzo del programma d’esame. Posso serenamente dire che è stato lui a tenere una lezione a me.
Poi ho sentito un’omelia di monsignor Mario Delpini dai toni quasi calviniani. Un apologo sulla città dell’ovvio e la città della verità. In cui ha spiegato che la prima è spensierata, e non vuole pensare perché le vengono in mente pensieri noiosi. E tante altre cose che di idee ne facevano frullare a chi fosse in ascolto.
Vedete? Ho toccato due punti di vista molto diversi, che mi hanno convinto ancor più di una cosa: che a non essere incestuosi ci si guadagna. O la fine ingloriosa di certe dinastie cresciute a forza di matrimoni tra cugini non ci ha insegnato niente?
Fonte: Il Fatto Quotidiano, 24/11/2025



