Il caso De Mauro, quattro piste e nessuna verità

Mauro de mauro giornalista

Un grande mistero italiano tra mafia, politica e affari.

“Uno straordinario cronista, sempre all’erta e con una curiosità spasmodica”, così il mitico direttore Vittorio Nisticò ricorda Mauro De Mauro nel suo libro di memorie sugli anni ruggenti dell’Ora, “Accadeva in Sicilia” (Sellerio editore). E questo fu il tratto che non lo lasciò mai: dalla sua assunzione nel 1959 alla drammatica scomparsa il 16 settembre 1970.

E stamane alle 9,30 in viale delle Magnolie, luogo in cui fu sequestrato 55 anni fa senza fare mai più ritorno, i giornalisti siciliani e l’Associazione nazionale magistrati lo commemoreranno davanti alla targa che lo ricorda, all’altezza del civico 58. Naturalmente ci saranno il sindaco Lagalla, il prefetto e le autorità – come si dice – civili e militari. Della famiglia, la figlia Franca, la sola rimasta a portare l’irrisolto fardello di memoria che è il “Caso De Mauro”.

Non lo hanno chiarito i procedimenti giudiziari legati al sequestro e all’omicidio, il cui movente è stato legato a indagini sulla mafia e principalmente alla fine di Enrico Mattei, il presidente dell’ENI, morto il 27 ottobre 1962 nella sciagura aerea di Bascapé nei pressi di Pavia. Di ritorno dal trionfale discorso di Gagliano Castelferrato, dove aveva prospettato dopo lo sviluppo delle raffinerie di petrolio in Sicilia, le grandi prospettive della scoperta del metano nella zona, l’aereo del coraggioso dirigente industriale fu sabotato nell’aeroporto di Catania ed esplose a pochi minuti dall’arrivo a Milano.

Nel 1969-70 Mauro De Mauro stava collaborando al film di Rosi sulla figura di Mattei. Aveva scoperto dettagli fino ad allora sconosciuti, tali da decretare la sua condanna a morte, naturalmente dopo averlo fatto “parlare”? Il processo di primo grado vide Totò Riina imputato per il delitto De Mauro, ma assolto nel 2011, una sentenza poi confermata in appello e in Cassazione. La Corte ha stabilito con certezza il coinvolgimento di Cosa Nostra, ma non ha individuato i responsabili e il movente.

Le inchieste su De Mauro hanno seguito quattro “piste” che sono state anche la “fotografia” delle contrastanti identità di vedute tra carabinieri e polizia.

Per un certo tempo i sospetti si appuntarono anche sul cosiddetto golpe Borghese progettato per la notte fra il 7 e l’8 dicembre 1970. Che a Cosa nostra sia stato chiesto di avere parte nel piano del Principe Nero non c’è dubbio. Lo racconta il pentito Antonino Calderone – fratello del capomafia catanese Giuseppe – nel libro “Gli uomini del disonore” scritto con Pino Arlacchi, uno dei massimi esperti al mondo su fatti e affari di mafia.

I carabinieri agli ordini dell’allora Comandante della Legione di Palermo, colonnello Carlo Alberto Dalla Chiesa, puntarono sul nascente traffico di eroina, che avrebbe avuto il suo principale riferimento nel boss di Cinisi, Tano Badalamenti, e un’inedita zona di sbarco non distante dal mare di Terrasini. Una pista che non ebbe mai molto credito e che sembrò piuttosto un tentativo di cercarsi un ruolo in contrapposizione alla polizia.

Da quest’ultima, e in particolare dalle indagini svolte dal capo della Squadra Mobile Boris Giuliano, emerse la pista di una Tangentopoli ante litteram guidata dai potenti esattori Salvo, legati a Roma con Andreotti, e in Sicilia con Cosa nostra come si sarebbe scoperto in seguito, nel 1975, con il sequestro del suocero di Nino Salvo, Luigi Corleo (riscatto da venti miliardi senza aver mai riavuto almeno il corpo), un’operazione che rese evidente che si trattava di un capitolo della cosiddetta seconda guerra di mafia.

Rimangono due domande di fondo.

La prima è se vi sono stati pentiti e che cosa hanno detto che potesse essere effettivamente utile all’inchiesta. La seconda più che altro pone un misterioso interrogativo. Perché l’inchiesta non prese mai in considerazione la pista delle tangenti che presentava invece una grande suggestione mediatica e poteva essere fortemente anticipatrice dei modi corruttivi di certa politica italiana?

Sostanzialmente alcuni pentiti parlarono, ma senza mai fornire prove. Il più importante fu Buscetta, secondo il quale la mafia eseguì il sequestro per conto delle Sette sorelle americane, le major petrolifere che vedevano come una seria minaccia il disegno di Enrico Mattei di cucire un rapporto di stretta collaborazione con l’Algeria, Paese ricco di fonti energetiche.

Vi fu addirittura chi sostenne che del commando che tese l’agguato a De Mauro facessero parte i capi, Riina e Provenzano. Sempre secondo don Masino, il giornalista cadde in una trappola tesa paradossalmente “in casa”, al Circolo della Stampa, allora al piano terra del Teatro Massimo e frequentato per le sue attività di gioco non propriamente ad uso dei giornalisti. Lì però De Mauro avrebbe parlato troppo, si sarebbe lasciato scappare per vanità di essere prossimo a uno scoop da Pulitzer.

Sul tentato golpe Borghese più che i pentiti è stata la cronaca stessa a fornire indizi e spunti investigativi se non altro per la coincidenza del fatto che a luglio 1970 L’Ora aveva pubblicato le foto del raduno fascista organizzato da Junio Valerio Borghese al cinema Smeraldo, in via Mariano Stabile, a pochi passi dal giornale. Un’adunata per raccogliere fondi cui non sarebbero stati estranei il mafioso Eliodoro Poma, un nome che entrò e uscì dall’inchiesta, e il medico Micalizio, un analista con gabinetto in via dello Spezio a Palermo. Era un ex Decima Mas, molto attivo nel Msi, non estraneo alle cosiddette trame nere.

Molto più pregnante e degno d’attenzione – ma non per la Corte d’Assise – fu il rapporto di Boris Giuliano che prefigurava l’esistenza di un fondo nero miliardario organizzato dai cugini Salvo per finanziare la politica, in particolare la Dc e soprattutto la corrente andreottiana.

Insomma, una Tangentopoli ante litteram, che se scoperta, avrebbe fatto luce con molto anticipo sulla corruzione politica di cui fu al centro soprattutto la Democrazia Cristiana. Ciò spiegherebbe anche il cosiddetto “mistero della busta gialla” che il ragionier Buttafuoco – commercialista di De Mauro, del giornalista Roberto Ciuni ma soprattutto dei cugini Salvo – cercava con insistenza con ogni evidenza sospetta nei cassetti di casa del giornalista sequestrato. Per timore di che cosa?

Di certo anche Roberto Ciuni nella sua deposizione confermò indirettamente questi sospetti quando disse che De Mauro gli aveva rivelato di non aver voluto rispondere ad alcune chiamate di Buttafuoco. Ma purtroppo queste quattro piste, pur valide, non hanno trovato un esito giudiziario, accrescendo – se mai si può dire – il mistero De Mauro.

Hanno collaborato Daniele Billitteri e Francesco La Licata

Fonte: Assostampa Sicilia