Il Cicerone dell’Asinara. La rivolta delle Br per le caffettiere e il “no” detto a Totò Riina

Borsellino falcone targa foresteria cala oliva

Si incontrano molte figure di custodi-ciceroni. Ma questa credo sia unica al mondo. E va raccontata.

Il nostro Custode è un sardo, precisamente uno dei due o tre residenti dell’isola dell’Asinara, di fronte al lato nordovest della Sardegna. Si chiama Gianmaria e porta uno dei più classici cognomi dell’isola: Deriu. Chi arrivi qui non può non conoscerlo nel giro di un giorno. Perché dell’Asinara egli è, copyright di Franco Battiato, il “centro di gravità permanente”. Consigli, suggerimenti, aiuti logistici, pubbliche relazioni. E soprattutto racconti, racconti a fiumi, che se dipendesse da lui non finirebbero mai, perché c’è dentro la sua storia, una vita intensamente vissuta a dispetto dell’apparente marginalità dei luoghi. Anzi, diciamo senz’altro che nei suoi racconti si staglia un pezzo della storia italiana.

Quest’uomo di 66 anni è stato infatti un sottufficiale di spicco del corpo degli agenti di custodia (l’attuale polizia penitenziaria) in un’isola che di carceri ne ha otto, e alle carceri ha finito per consegnare -per la pura forza dei fatti- la propria immagine. Lì sono stati ristretti molti dei più famosi detenuti della storia nazionale, che di lì è dunque più volte passata. Terroristi rossi, camorristi, criminali da prima pagina, boss mafiosi.

Di loro Deriu ricorda ogni dettaglio. Vi sa raccontare le abitudini, i modi, i momenti dell’arrivo con elicotteri d’emergenza e scorte armate. Non c’è quasi bisogno di fargli domande. Basta trovarsi a un tavolino di bar, fermarsi con lui a una delle cento insenature da paradiso terrestre, e le parole fluiscono, regalandoti anche informazioni preziose su ciò che compare improvviso, dal lentischio al muflone femmina. Non è un juke-box, il grande Custode. È un deposito infinito di memorie che si narrano da sole. Dense, talora con una verve da commedia all’italiana.

Ti fa visitare le carceri -Fornelli, Cala d’Oliva- e in ogni cella è riposto un suo ricordo. Di un collega, di un superiore, di un detenuto. La rivolta delle caffettiere dei brigatisti. L’odio improvviso dei rivoltosi. La mille astuzie per munirsi di armi improprie. Le abilità infinite richieste da un mestiere in prima linea.

Alberto Franceschini, il capo Br, del quale conserva oggi un ricordo perfino affettuoso, come per tanti dei suoi “pazienti”, come li chiama lui. Raffaele Cutolo, rispettoso nei modi, ma solo dopo che gli fu fatto capire che lì non avrebbe comandato come a Poggioreale. E Totò Riina, che qui del suo famoso 41 bis passò ben poco, essendo sempre in viaggio per aule di giustizia, e che lui si rifiutò di incontrare personalmente. “Non ce la facevo proprio. Lo dissi al direttore quando mi diede una disposizione che me lo avrebbe fatto incontrare”.

E c’era una ragione speciale per quella garbatissima insubordinazione. Aveva 26 anni, Deriu, quando un giorno di agosto del 1985 lo chiamarono (era nata sua figlia da pochi giorni) per ordinargli di arrivare subito all’Asinara. Sarebbero giunti due giudici che avrebbe dovuto tutelare personalmente con il massimo rigore. Nessuno doveva riuscire a contattarli se non dopo essere passato da lui. Il loro nome lo seppe giorni dopo.

Erano Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, naturalmente. Mandati per sicurezza sull’isola dei detenuti a scrivere l’ordinanza di rinvio a giudizio del maxiprocesso. La memoria è vivissima, la voce ogni tanto si rompe. Ricorda Manfredi Borsellino, allora tredicenne, a cui insegnò ad andare in motorino. Ha ancora oggi una venerazione per Agnese, la moglie del giudice dai baffetti gentili, “quella nobildonna”.

Si andrebbe avanti per ore, e lo si fa anche. Solo la sera, con la finestra aperta verso le infinite stelle dell’isola, cede il passo a musiche bellissime, Leonard Cohen è il suo preferito. E allora sono le note che spandendosi con dolcezza nell’aria parlano per lui. “È Gianmaria”, spiega uno studente ai compagni di viaggio.

Fonte: Il Fatto Quotidiano, 12/05/2025