La fine dell’ultimo grande latitante De Stefano

Giuseppe de Stefano

Meno uno sulla
lista dei trenta latitanti più pericolosi d’Italia. Giuseppe De Stefano,
l’ultimo della famiglia il cui cognome a Reggio Calabria significa
‘Ndrangheta, è stato tratto in arresto dalla squadra mobile reggina
guidata da Renato Cortese lo scorso mercoledì, mentre si trovava nella
sua abitazione di Pietrastorta con moglie e figli. “Una tappa storica
– ha spiegato il questore di Reggio Calabria Santi Giuffrè – 
resa possibile dall’impegno di molti e dalla condizione di sorvegliato
speciale di Giovanni Tavella, fiancheggiatore del boss, nel cui palazzo
al sesto piano risiedeva De Stefano con la famiglia”. Su di lui pendono
due condanne definitive dei tribunali di Reggio Calabria e Messina,
che ammontano complessivamente a quasi trent’anni anni di reclusione,
per associazione a delinquere di stampo mafioso e per traffico di sostanze
stupefacenti.

A Giuseppe De Stefano, inoltre, è stata attribuita anche
la responsabilità dell’omicidio Spinelli con una condanna in primo
grado a trenta anni di reclusione. Latitante dal 2003, Giuseppe De Stefano,
trentanove anni, pare fosse rientrato a Reggio per riequilibrare determinate
situazioni, i cui fermenti si erano già annunciati nei mesi scorsi.
A scuotere anche i più distratti, l’esplosione nella notte di San
Lorenzo del bar “Dolce Sapore”, sul viale Aldo Moro, di proprietà
Luciano Lo Giudice, di cui poi si perderanno le tracce nell’ottobre
successivo. Confluiscono, infatti, non casualmente in questo quadro
anche la vicenda della sparizione del trentesettenne Paolo Schimizzi
di Archi, nuovo referente della cosca Tegano, e quella di qualche tempo
dopo di Luciano Lo Giudice, figlio del boss Giuseppe Ucciso nel 1990
in piena guerra di mafia. Quella cominciata con la strage del Roof Garden,
nel novembre del 1974. Dunque la necessità di ristabilire equilibri
nei rapporti interni ed esterni, avrebbero richiesto la presenza di
Giuseppe De Stefano in città. Suo padre, Paolo, già capocosca venne
ucciso nell’ottobre del 1985 nell’agguato che siglò l’inizio
di una delle faide più violente che abbiano insanguinato Reggio Calabria.
Non a caso questo cognome, come più volte sottolineato dal procuratore
capo Giuseppe Pignatone, è strettamente legato alla peggiore storia
di Reggio Calabria. Finita una latitanza etichettata dal Ministero degli
interni come altamente pericolosa. Finita una latitanza che è costata
a Giuseppe De Stefano la perdita della patria potestà sui suoi due
figli nati quando, infatti, le condanne a suo carico erano già state
emesse. Affidati esclusivamente alla moglie Fiorenza, i due bambini
sono stati, per la prima volta nello scenario giuridico italiano, considerati
a rischio di asservimento a logiche di sopraffazione e predominio del
potere mafioso e preservati dallo suddetto rischio. Senza successo,
era stata già avanzata la richiesta per Maria Morabito, moglie del
“Supremo” Pasquale Condello arrestato lo scorso febbraio, e per
la moglie del cugino del boss. Respinta anche la richiesta di decadenza
dalla patria potestà della moglie di Giuseppe De Stefano, Fiorenza
–  33 anni –  ma accolta quella relativa al marito. Una sentenza,
la prima nella letteratura giurisprudenziale italiana, ha infatti colpito
la genitorialità di un padre in ragione di quella mafiosità che lo
ha eletto tra i latitanti più pericolosi del paese. “Il suo prolungato
stato di latitanza – si leggeva nella motivazione della sentenza del
Tribunale dei Minori di Reggio Calabria – ha privato i figli 
dell’ineliminabile figura paterna  e del ruolo che essa è chiamata
a svolgere nel’equilibrata formazione del carattere”. Un’assenza
sanzionata con la perdita della patria potestà. Un attacco alla sacralità
delle ‘ndrine che sul vincolo di sangue fondano la loro forza e il
loro predominio sul territorio; che sul concepimento di figli durante
la latitanza fondano il proprio riscatto agli occhi di quella giustizia
che non riconoscono e che oltraggiano costantemente. Una svolta nella
lotta alla ‘ndrangheta si è rivelato il documento sottoscritto dall’allora
procuratore aggiunto Salvatore Boemi e dai sostituti Nicola Gratteri,
Domenico Galletta, Giuseppe Lombardo. In esso si legge di diritto del
minore ad un’alternativa alla famiglia mafiosa e di protezione del
minore dal contesto di illegalità e sudditanza, cui sarebbe incolpevolmente
condannato per solo fatto di discendenza. “ La famiglia di ndrangheta
assume tutte le caratteristiche di un vero e proprio clan, di un centro
di imputazione di interessi affaristici e illegali inconciliabili con
quelli dello Stato e della sue istituzioni, alla stregua di una cellula
terroristica con finalità eversive e destabilizzanti dell’ordine
democartico”. In questi termini si è espressa la DDA di Reggio Calabria
all’atto di chiedere la privazione di De Stefano della patria potestà.
Un provvedimento che è una sfida, attesa la rilevanza costituzionale
che assumono la famiglia e l’educazione dei figli nel nostro ordinamento
giuridico e attesa la centralità della famiglia nelle dinamiche della
mafia calabrese, e che finora aveva consentito una così pregnante invasività
solo nella sfera delle persone condannate in via definitiva all’ergastolo.
Un varco importante che deve essere tuttavia percorso fino in fondo
per la tutela di intere generazioni, futuro di mafia o di legalità
per sé stessi e per il territorio in cui vivono. Un sfida che pare
scuotere gli ambienti mafiosi che hanno a “cuore” due cose: la famiglia
e il patrimonio. Due strumenti di potere.