Non ci interessa tanto come andrà a finire l’iscrizione della premier Meloni e di altri esponenti del suo governo nel registro degli indagati, a seguito dell’esposto dell’avvocato Li Gotti. Ci interessano piuttosto le reazioni del governo.
La premier, con un suo comunicato, ha portato l’ennesimo attacco alla magistratura, incorrendo fra l’altro in alcune sgrammaticature.
Innanzitutto si attacca il Procuratore di Roma Lo Voi, definendolo “lo stesso del fallimentare processo a Salvini” per la vicenda dei migranti soccorsi dalla Open Arms: si dimentica che soltanto nei regimi dittatoriali il pubblico ministero ha sempre ragione.
C’è poi l’attacco alla Corte penale internazionale per essere intervenuta soltanto quando Almasri era giunto in Italia; e ciò senza neppure accennare alle impressionanti accuse a carico del medesimo: maltrattamenti, torture, stupri e omicidi dei migranti detenuti nel famigerato carcere libico di Mitiga da lui diretto. Segue l’attacco all’avvocato Li Gotti, accusato di essere vicino a Prodi, dimenticando la sua lunga militanza nelle forze di destra; e soprattutto rilevando, quasi fosse un demerito, la sua difesa di Buscetta e di altri mafiosi, senza tener conto del particolare per cui senza pentiti la lotta alla mafia sarebbe ancora all’anno zero o quasi.
Colpisce soprattutto l’ennesima rivendicazione della premier di non essere ricattabile, senza neppur preoccuparsi di fornire qualsiasi indicazione su chi e perché potrebbe ricattarla. Creando così intorno a sé una cortina di nebbia e di incertezza, strumentalizzata a costruire un contesto di vittimismo e di oscuro complottismo che non giova certo al prestigio delle istituzioni e alla sua personale credibilità. In sostanza tutta la reazione di Meloni si risolve in un attacco all’indipendenza dei pubblici ministeri.
Alla Meloni ha fatto immediatamente eco Salvini, che ha rilanciato gli argomenti della premier gridando con indignazione: ”Vergogna, vergogna! Lo stesso procuratore che mi accusò a Palermo ora ci riprova a Roma con il governo di centro destra. Riforma della giustizia subito!”. Il che costituisce la prova provata che la pretesa riforma della giustizia è in realtà una riforma della magistratura, che viene considerata troppo poco disposta ad allinearsi alla maggioranza politica di governo e che si vuole quindi far rientrare nell’orbita del potere esecutivo. Facendo finta in tal modo di ignorare il principio costituzionale per cui tutti i magistrati, compresi i Pm, debbono godere di assoluta indipendenza.
Il ministro Nordio, per parte sua, rivendica ogni tre per due di essere stato un Pm e afferma che lui può quindi garantire meglio di ogni altro che la programmata riforma della separazione delle carriere non inciderà in alcun modo sull’indipendenza dei Pm. Cosi comportandosi più come il Candide di Voltaire che come un ministro responsabile.
Se il ministro è così sicuro dell’indipendenza dei Pm, perché non lo scrive espressamente nel testo della programmata riforma? E non si dica che ciò sarebbe superfluo. In una materia così importante e delicata i sottintesi non vanno bene: occorre essere ben chiari ed espliciti.
In conclusione. Si prospettano tentazioni di chiudere la stagione costituzionale tornando a un modello vecchio, in cui status e libertà dei cittadini dipendono non da regole condivise, ma piuttosto dai rapporti di forza. Il che costituisce l‘interfaccia di una democrazia illiberale, se non di una stato autoritario, dove il principio di legalità (per cui tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge e nessuno può sottrarsi alla sua osservanza) diventa carta straccia.
Fonte: La Stampa



