La solitudine dei testimoni

Rita Atria

In pochi sapevano che abitava li,  al civico 23 di via Amelia, nel  quartiere Tuscolano a Roma.  Aveva solo 17 anni ed era stata trasferita da Partanna (Tp) nella  capitale per motivi di sicurezza. Si chiamava Rita Atria ed era una testimone di giustizia. Figlia di Don Vito  Atria e sorella di Nicola, uccisi nella faida del Belice, la giovane aveva  scelto di rompere con la cultura mafiosa e denunciare i boss. Nel 1991  dopo l’omicidio del fratello aveva seguito l’esempio della cognata, Piera Aiello, che da poco aveva iniziato a deporre contro i killer, raccontando  ciò che sapeva ai magistrati.

Il 26 luglio del 1992, una settimana dopo la  strage di via d’Amelio in cui perse la  vita il giudice Paolo Borsellino – il  magistrato che per le due donne, era  diventato un amico, una guida – Rita  sentì di non potersi più fidare di nessuno e decise di suicidarsi. Vent’anni dopo, a Partanna non c’è ancora  una tomba che porta il suo nome,  simbolo che la giovane testimone è  scomoda anche da morta. Scomoda,  come continua ad essere oggi la cognata, Piera Aiello. Costretta a vivere sotto sorveglianza, con una nuova  identità, in una località segreta, Piera non ha mai smesso di deporre nei  processi, portando avanti questo impegno, anche nel nome di Rita.

Grazie al sostegno dell’Associazione  antimafie “Rita Atria” (che presiede)  e della società civile, negli ultimi  anni, incontra i giovani, racconta la  sua storia. «Tutti coloro che io e Rita  denunciammo – dichiara la Aiello – oggi sono a piede libero, mentre  io conduco una vita da detenuta,  e come me, tanti altri testimoni, si  trovano in condizioni estremamente  difficili».

 Ricominciare una nuova  vita, trovare un lavoro, portare con  sé la famiglia e sperare che nessuno  faccia passi falsi. Alla Aiello lo scorso anno è accaduto di vedere saltare  la copertura costruita con fatica in  questi venti anni a causa di una “leggerezza” di uomini delle istituzioni,  non preposti alla sua sicurezza. La  procura di Marsala ha assolto il maresciallo dei carabinieri, Salvatore  Ippolito, dall’accusa di aver commesso il reato. Rimane il fatto che  sono stati resi noti dati sensibili che hanno messo a rischio la Aiello e la  sua famiglia.

Questa è solo una delle  falle del sistema che dovrebbe oggi  garantire i testimoni di giustizia, ma  ce ne sono molte altre. «Siamo come  arance, ci spremono quando serviamo e poi ci buttano via – commenta la Aiello. Io ho rinunciato a tutto quando sono partita, ma oggi che la  mia copertura è stata violata – continua – mi sembra di essere tornata  indietro di vent’anni». Ad oggi sono  una settantina i testimoni di giustizia in Italia, e il numero tende a  diminuire.

Molti di loro si trovano  in gravi difficoltà, spesso denunciano una mancanza di attenzione da   parte di chi dovrebbe applicare le  normative vigenti in materia. Una  relazione della precedente Commissione antimafia, a firma di Angela  Napoli (Fli) aveva posto in luce tutte  le criticità del sistema (reinserimento dei testimoni nel tessuto sociale,  assistenza psicologica, adeguamento  delle condizioni economiche attuali a quelle precedenti all’ingresso  nel programma di protezione) ma –  come conferma anche Nadia Furnari  dell’Associazione Rita Atria – «quel  lavoro prezioso è stato ignorato». La  Furnari sottolinea i tanti errori che  si riscontrano nell’applicazione della legge e ricordando il sacrificio di  Rita, dichiara: «E’ stata vittima due  volte, della mafia ma anche di quello Stato che l’ha lasciata sola».