Lo stop ai dazi della Corte dell’appello e il ricorso sempre più frequenta di Trump alla Corte Suprema la cui maggioranza ha creato sua immagine e somiglianza politica. Come l’attuale presidente statunitense sta ampliando i suoi poteri aggirando il Congresso è l’espressione piena della confusa democrazia americana oggi più che mai nel recente passato a rischio.
Dazi per far pagare il debito Usa al mondo
C’è un copione che sembra ripetersi ogni qualvolta la giustizia interferisce con le decisioni di Donald Trump: il ricorso del tycoon alla Corte Suprema, alla quale il presidente americano assegna una fiduciosa capacità di ribaltare le sentenze delle corti federali avendola formata da suoi prescelti nelle due legislature.
La vicenda più recente e clamorosa, lo stop espresso da una corte d’appello sulla liceità dei dazi, confutando quell’Emergency Economic Powers Act (Ieepa) del 1977, che conferisce al presidente il potere di affrontare minacce «insolite e straordinarie durante le emergenze nazionali». Ma imporre dazi, argomentano i giudici, non è contemplato da quella legge e non è nemmeno un’emergenza nazionale, sottolineano numerosi giuristi. «Ma non è detto che questo potrà valere ancora per una Corte di conclamata appartenenza politica – sei togati su nove tre dei quali nominati dallo stesso Trump siano di orientamento conservatore – ma comunque tenuta ad un minimo di decenza giuridica per salvaguardare se stessa», come sottolinea Giorgio Ferrari, editorialista di Avvenire
La politica di prepotenza
Se la Corte Suprema dovesse confermare l’illegalità dei dazi, il governo potrebbe essere costretto a rimborsare agli importatori miliardi di dollari già raccolti dalle imprese (si parla di oltre 160), con impatto enorme sul gettito statale accumulato. Ma non è l’unico caso: recentemente un giudice federale ha bloccato i tentativi dell’amministrazione Trump di estendere una procedura di espulsione accelerata per gli immigrati irregolari, stabilendo che l’applicazione estesa della norma crea «un rischio significativo che le persone che potrebbero avere diritto a rimanere negli Stati Uniti vengano invece espulse dal Paese». Un’altra battuta d’arresto per The Donald.
E anche qui finirà per essere la Corte Suprema a dirimere la controversia. «In filigrana tuttavia si scorge ben altro: al di là dei contenziosi aperti si snoda un autentico braccio di ferro fra la democrazia liberale e la spinta sempre più forte del presidente verso un potere autocratico se non assoluto».
«Una torsione che Trump sta sistematicamente imponendo alla Balance of Power – quel bilanciamento dei poteri con la separazione tra legislativo, esecutivo e giudiziario in modo che possano controllarsi e bilanciarsi a vicenda attraverso un sistema di ‘pesi e contrappesi’ – che va progressivamente indebolendo la struttura stessa della democrazia americana».
‘Democratic backsliding’, scivolamento democratico
Certo, gli Stati guidati dai democratici, prova a rassicurare consola Giorgio Ferrari- ad esempio la California del governatore Gavin Newsom o lo stesso Stato di New York – restano ancora per l’amministrazione Trump una temibile linea Maginot, visto che promuovono politiche alternative, dall’immigrazione all’ambiente, a quelle della Casa Bianca. «Ma è ormai più che scoperto l’uso del potere presidenziale per aggirare il Congresso, oltre ai tentativi di politicizzare il Dipartimento di Giustizia e altre agenzie governative, con nomine giudiziarie che riflettono più la lealtà politica che l’indipendenza.
A parere di molti osservatori, l’esecutivo sta gradualmente ampliando il proprio potere a spese degli altri rami del governo». E come scrive il Los Angeles Times: «Il pericolo non è una transizione immediata a un’autocrazia, ma un lento ‘scivolamento democratico’ (democratic backsliding) in cui le istituzioni che proteggono le libertà e limitano il potere esecutivo si indeboliscono gradualmente, rendendo il sistema più vulnerabile».
Non è ancora la notte, ma il buio incombe
«Forse non è ancora scesa la notte sulla democrazia americana. Ma la straripante vittoria elettorale di The Donald sta cambiando antropologicamente la bussola della politica, tentando di trasformare il Paese in una società tecno-liberista, guidata da oligarchie miliardarie e onniscienti, crepuscolo di quell’idea di democrazia partecipativa che il preambolo della Costituzione americana con il suo ‘We the People’ proclama orgogliosamente». L’epigrafe, il motto che sta sotto la testata del Washington Post da sempre recita: ‘Democracy dies in darknes’. «La democrazia muore nelle tenebre. Appunto. Peccato che l’editore del quotidiano che scoperchiò lo scandalo Watergate» sia ora uno dei più disciplinati compagni di golf dell’uomo di Mar-a-Lago.
La ‘democratura’ di Trump
L’attuale presidente ha promulgato quasi 200 ordini esecutivi, con una media annuale di 329 contro i 41 di Biden. Creare uno stato emergenziale perenne definisce la narrazione apocalittica dell’inquilino della Casa Bianca. Per fortuna l’America fiuta il pericolo e prende le distanze: l’approvazione di Trump scende al 37%, il minimo storico. Tra licenziamenti di massa, attacchi alla stampa, crisi internazionali e poteri concentrati nell’esecutivo, cresce la sfiducia verso un leader accusato di erodere dall’interno la democrazia. Non ci sono carri armati né proclami autoritari. Ma si insinua un processo sotterraneo illiberale e anti democratico. Non è una demolizione violenta, ma una lenta erosione dei fondamenti democratici, denuncianon filosofi e politici.
Credibilità internazionale zero
All’estero, le promesse di pace si sono infrante: la crisi di Gaza vergognosamente irrisolta, la guerra Ucraina non si ferma e Trump ha dimostrato di rimanere senza una strategia credibile. Con gli alleati storici europei umiliati e diffidenti, salvo poche opportunistiche eccezioni. «Houthi, Israele, Iran, Usa, Europa: un filo che lega tutto», titolava sabato Remocontro. «L’attacco aereo israeliano nello Yemen, non è stato solo una rappresaglia contro la leadership degli Houthi. Dietro il tentativo di omicidio ‘mirato’ per decapitare un nemico sempre più ostinato, l’obiettivo di un messaggio all’Iran, che ha il ‘patronage’ del regime di San’a», avvertiva Piero Orteca.
Fonte: Remocontro



