Quello in corso a Palermo non è soltanto il processo sulla Trattativa Stato – mafia. E’ anche una lente d’ingrandimento che consente di vedere meglio gli ultimi 20-30 anni della storia del nostro Paese. Una storia fatta di testimonianze dirette come quella dell’ex capo della mobile di Trapani, Rino Germanà oggi fra i teste in aula e indirette, come quella della figlia di Salvo Lima, potente politico della corrente andreottiana in Sicilia, ucciso da Cosa nostra il 12 marzo del 1992. Su richiesta dell’avvocato di parte civile che in aula rappresenta la rete di associazioni aderenti a Libera, Enza Rando, Susanna Lima oggi, fra le altre dichiarazioni rese in udienza, ha affemato di essere riconosciuta dallo Stato familiare di vittima della criminalità organizzata: lo status concesso dopo rigorosi controlli da parte del ministero dell’Interno. «Ci chiediamo come sia possibile che la famiglia Lima sia stata riconosciuta come status di vittima di mafie visto l’estremo rigore dei criteri della legge nazionale –hanno scritto in una nota al termine dell’udienza, l’associazione Libera e il Centro Studi Pio La Torre, parti civili nel processo. «Una rigidità – sottolineano – che ha portato all’esclusione di questo riconoscimento per diversi familiari di vittime di criminalità organizzata. Quando e da chi è stata assunta questa decisione e quali criteri sono stati seguiti nella valutazione?». Neppure un’ora e arriverà la smentita del suo avvocato, marito della donna: Susanna Lima ha frainteso la domanda, non gode dei benefici previsti per i familiari.
Facciamo un rapido passo indietro. Il 30 gennaio del 1992 la corte di Cassazione mette la parola fine al maxi processo a Cosa nostra confermando condanne pesanti per i boss della Cupola, grazie ad un solido impianto accusatorio e una serie infinite di prove, riscontri, testimonianze (su tutte quella del collaboratore di giustizia, Tommaso Buscetta). Proprio Buscetta, Francesco Marino Mannoia e numerosi altri collaboratori di giustizia ma anche investigatori che si occuparono del “sacco di Palermo” e persino i giudici che scrissero le sentenze sul caso Andreotti (sui suoi rapporti con Cosa nostra, ndr) segnalarono i collegamenti fra il politico siciliano Salvo Lima e alcuni esponenti di Cosa nostra. Colpisce, dunque, leggere nella copiosa documentazione prodotta in quegli anni un’altra storia che diverge da quella ufficiale necessaria per il riconoscimento dello status di familiare – se fosse confermata la dichiarazione della figlia di Lima resa sotto giuramento. Fra gli altri atti, nella relazione di minoranza della Commissione parlamentare antimafia datata 28 maggio del 1993, curata dal politico Luciano Violante, in merito a Salvo Lima si legge “c’è la convinzione che tra la vittima di quell’omicidio ed esponenti di Cosa Nostra fossero intercorse stabili relazioni aventi oggetto la prestazione di consenso politico in cambio di favori di carattere giudiziario o di altro tipo”. Secondo la ricostruzione fatta dai magistrati, Lima venne assassinato proprio perché non era stato capace di cambiare le sorti dei boss. La figlia dell’europarlamentare però oggi afferma: “Non ci furono particolari reazioni da parte di mio padre relativamente alla sentenza di primo grado del maxiprocesso. Ma non ho mai colto particolari preoccupazioni o timori riguardo alla sua incolumità: ho la certezza che mio padre non è stato assassinato perché non rispettava i patti con la mafia, semplicemente perché mai nessun patto aveva stretto”. Poi aggiunge un retroscena: il politico, sette volte presidente del Consiglio Giulio Andreotti, dopo il delitto Lima, avrebbe chiesto alla figlia “Non è che per caso c’entra Vito Ciancimino?”.
Numerosi i passaggi giudiziari su Salvo Lima, all’interno dei processi sulle stragi degli anni ’90, fra gli altri un interrogatorio fatto dai magistrati al collaboratore di giustizia, Giovanni Brusca (11 settembre 1996) in cui si legge: “Non si trattava solamente di eliminare LIMA e quindi di chiudere il conto con lui ma anche, in questo modo, di colpire ANDREOTTI e spiego in che termini, specificando che quanto ora dico mi proviene dai discorsi che faceva RIINA. Secondo RIINA, ANDREOTTI era sempre stato appoggiato dalla Sicilia nel senso che la mafia aveva alimentato il consenso della DC in Sicilia ed in particolare della DC di ANDREOTTI; ciò non pertanto ANDREOTTI non si era in alcun modo attivato perchè il maxi avesse un esito diverso e al contempo coltivava aspirazioni politiche elevatissime e, in primo luogo, la prospettiva di essere designato Presidente della Repubblica”. Il racconto di Brusca continua nell’interrogatorio del 19 marzo del 1999 davanti ai magistrati di Palermo. In un passaggio in cui si ricostruisce la tempistica della strategia stragista voluta da Riina, Brusca afferma: “Ricapitolando, mentre Lima viene ucciso perché, sostanzialmente, ci ha abbandonati e Giovanni Falcone perché era nostro nemico principale, il dott. Borsellino […] probabilmente è stato ucciso come conseguenza della trattativa”. Un altro collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi che ha fornito una ricostruzione della “trattativa” in alcuni punti divergente da quella di Brusca, fa riferimento al delitto Lima ( durante il dibattimento del cosiddetto Borsellino Ter – in parte riportato nella sentenza del 9 dicembre 1999 dalla corte d’assise di Caltanissetta). Ad interrogarlo è la dottoressa Palma che chiede: perché viene ucciso l’onorevole Lima? e Cancemi risponde “Io quello che ho saputo da Riina, perché non ha… non ha mantenuto… la dottoressa Palma: non ha mantenuto…. Cancemi: gli impegni, quelli che avevano preso lui, Andreotti e questa gente”-
In aula oggi a Palermo ha deposto anche Rino Germana, ex capo della mobile di Trapani e sopravvissuto ad un attentato mafioso. «Presentai un rapporto tra aprile e maggio del 1992, in cui oggetto della denuncia del giudice Scaduti era l’allora senatore Vincenzo Inzerillo, riconducibile all’area politica di riferimento dell’ex ministro Calogero Mannino”. Germanà oggi questore a Piacenza dopo il trasferimento e l’attentato non si è più occupato di indagini antimafia ma questa prima testimonianza sulla trattativa Stato-mafia parte proprio da quelle inchieste. “Dopo il rapporto ci furono delle richieste indirette per incontrare Mannino – ha continuato Germanà – una proveniva da mio cugino Virginio Amodeo e mi sollecitava ad incontrare Mannino. Ma io rifiutai”. Poi a Germanà arrivò la convocazione del vice capo della Criminalpol Luigi Rossi. “Mi chiese – ha detto il questore – se dall’indagine fosse venuto fuori qualcosa su Mannino e io risposi di si, ma che non c’era nulla di specifico”. Calogero Mannino in questo processo ha scelto il rito abbreviato, quindi, in sostanza, un processo più breve e parallelo a quello in corso sulla Trattativa. Eppure in aula il suo nome torna spesso, come protagonista politico della democrazia cristiana in quegli anni. Come oggi la storia politica di Salvo Lima ha riaperto la dolorosa pagina di quelle “stragi annunciate” e – secondo i collaboratori di giustizia – partite proprio dal delitto del “capo” della Dc andreottiana ucciso a Palermo da Cosa nostra.



