Prof aggrediti a scuola. Il giusto arresto dei violenti e il veleno dell’autoritarismo

Prof aggredito a scuola

Giusto per capirsi: sono tra le centinaia di docenti universitari che hanno firmato l’appello contro l’autoritarismo lanciato da Libertà e Giustizia.

Eppure non riesco a fare rientrare nella categoria dell’autoritarismo un recente provvedimento emesso dal Ministro dell’Istruzione. Mi riferisco alla possibilità dell’arresto in flagranza con irrogazione di una pena fino a 5 anni per chi – studente o genitore o comunque parente – aggredisca fisicamente l’insegnante a scuola o per ragioni di scuola.

Mi sembra anzi un provvedimento straordinariamente tardivo, frutto di una derubricazione di quella violenza a “spiacevole normalità”, magari meritevole – al più – di un giorno di sospensione da parte di un preside coraggioso e dotato di senso delle istituzioni. Con alle spalle una moltitudine di “tolleranti” pronti a sentenziare classicamente che “un motivo ci sarà pur stato”, per propria inclinazione ideologica a giustificare ogni rivolta verso l’autorità costituita.

Certo, “bisogna interrogarsi” sui perché. Ma a furia di interrogarsi senza rispondere resta ormai solo da chiedersi perché si sia creata questa convinzione di impunità da parte di una folla di giustizieri in possesso di diploma elementare o di master, questa idea maramalda che l’educatore può essere picchiato, umiliato, intimidito.

Una scuola che non sa educare alla tolleranza e alla inclusione di tutti fallisce. Ma altrettanto fallisce una scuola che non sa educare al rispetto delle istituzioni. Se il problema si ripete negli anni, vuol dire che una faglia alla deriva ha rotto il rapporto tra società e civiltà. Altro che “autoritarismo”.

Il fatto è che dietro le botte e le intimidazioni alle/agli insegnanti ci stanno proprio le forme peggiori di autoritarismo. Che sono almeno tre.

La prima è quella di chi si rifiuta di accettare il giudizio di una istituzione su di sé o un proprio caro, perché “sopra di me nessuno”. Esattamente come il rifiuto del verdetto del giudice di tanti politici e colletti bianchi. Io conto di più, nessuno può sanzionare le mie condotte o le mie mancanze. Un anarchismo autoritario, insomma.

La seconda è il disprezzo per la cultura e l’educazione. Non vorrai davvero stigmatizzarmi davanti a tutti perché non so il Leopardi o la trigonometria o addirittura la storia. Ma chi ti credi di essere con questa materia inutile nelle mani? E sa il cielo se il rifiuto della cultura non sia parente strettissimo dell’autoritarismo. Non fu forse del fascismo l’idea di bruciare i libri in piazza? Non sono stati gli autoritarismi di ogni forma a forgiare i concetti di “culturame” o di “intellettuale dei miei stivali”?

La terza è il classismo. L’intima convinzione cioè che non sarà certo uno spiantato da millequattrocento o milleseicento euro al mese a venirmi a dire che cosa è giusto o non è giusto fare o sapere. Tornatene e stai buono al tuo posto e non venire a rompere l’anima ai signori, tu con la tua auto usata o con la tua giacca lisa.

Chiaro? A me sembra importante, soprattutto oggi, che si capisca fino in fondo la mistura ideologica che porta alla diffusa ripetizione di questi comportamenti, che a volte le stesse autorità scolastiche tollerano e giustificano.

È ovvio che il professore come il giudice possono sbagliare. È ovvio che “possano” avere torto. Ma in quel caso il sistema offre rimedi e contrappesi. Esattamente come non accettiamo che uno porti le armi per farsi giustizia da solo, così non possiamo accettare che uno porti in giro la sua violenza fisica per rendere giustizia a un figlio o a un nipote. Non dovrebbe essere difficile capirlo.

Ma il solo fatto che tutto questo debba essere ricordato anche a cittadini democratici indica che il male ha radici profonde. Un po’ di senso delle istituzioni non sana le grandi ingiustizie sociali, ma aiuta ad arginarle e prevenirne molte forme quotidiane. Magari anche a prosciugare il loro brodo di coltura.

Fonte: Il Fatto Quotidiano, 05/05/2025