Le chiamiamo prostitute ma più correttamente dovremmo indicarle come “prostituite”. Una vocale in più cambia radicalmente il senso di quello che con troppa leggerezza ci siamo abituati a definire come il mestiere più antico del mondo. Sono vittime e non protagoniste le donne che vengono sottratte al loro ambiente, alle loro famiglie e alla normalità per andare ad arricchire la criminalità organizzata nella maniera più degradante che l’umanità possa conoscere. L’unico modo per comprendere a fondo questo dramma è quello di guardarlo con gli occhi delle vittime. “Le ragazze di Benin City” è scritto da Isoke, una donna nigeriana che ha avuto il coraggio e la forza di ribellarsi, ma anche la fortuna di incontrare chi ha avuto altrettanto coraggio ad aiutarla. Nelle storie come quelle di Isoke c’è tutto il dramma di donne che sono costrette a piegarsi alla violenza della peggior specie perché offende la dignità, ferisce nel profondo, umilia, degrada. E sono lacrime amare colme di disperazione quelle che una donna versa nella stanza in cui è segregata e che noi dovremmo ascoltare come denuncia di un mondo violento che include i trafficanti, gli sfruttatori e i clienti.
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