Ho ancora negli occhi le immagini di quel terribile pomeriggio di venti anni fa. Il cuore che si ferma per un attimo prima di riprendere la sua corsa, impazzito per lo sgomento. L’adrenalina nelle vene. I movimenti meccanici verso la redazione, gli sguardi attoniti dei colleghi, lo sforzo durissimo di dare un senso al lavoro collettivo. La necessità di sapere e di comunicare, di raccontare i fatti, mista all’ansia per la sorte di un magistrato straordinario. Ho avuto la ventura di “aprire” il Tg1, di commentare in diretta le prime notizie e le prime immagini, girate in maniera un po’ rocambolesca da Marco Sacchi, uno dei nostri operatori della Rai. Già a notte inoltrata abbiamo cominciato a ragionare insieme con i colleghi più consapevoli su moventi e scenari. Cercavamo una bussola che non ci facesse perdere il senso di quello che facevamo. Stavamo sul pezzo. Tentavamo di fare nostra, nell’ambito giornalistico, la lezione di Falcone, con un’adesione meticolosa ai fatti, ma senza rinunciare a collegarli, a metterli in fila e a ricavarne indicazioni utili per non annegare in un oceano di dettagli e suggestioni.
Il mio compito in redazione, già dall’alba dell’indomani, sarebbe stato quello di occuparmi dello stato delle indagini. Sono state ore, fra le più difficili della mia vita professionale. Era difficile penetrare il muro di silenzio. Non che le nostre fonti storiche e tradizionali si fossero inaridite ma era come se anche loro fossero rimaste annichilite da quei cinquecento chili di tritolo sotto l’autostrada. Dopo i primi pezzi eravamo quasi nell’impossibilità di continuare in maniera dignitosa a raccontare cosa accadeva. Di questa difficoltà abbiamo parlato, in incontri informali, con tanti amici, investigatori e magistrati, spiegando anche il rischio che sulla strage e sulle sue vittime calasse una cortina di silenzio, nella quale trovassero spazio, come tante altre volte in Sicilia ( e come ha drammaticamente dimostrato l’inchiesta più recente della procura nissena sulla strage di via d’Amelio) manipolazioni e distorsioni. Non bastava cercare e trovare un colpevole qualunque e non ci si poteva accontentare di una spiegazione solo “criminale” che mortificasse le illuminanti intuizioni di Giovanni Falcone che già dopo il fallito attentato sulla scogliera dell’Addaura aveva denunciato l’esistenza di “menti raffinatissime”, centri occulti di potere che condividevano con Cosa Nostra la strategia di destabilizzazione del paese. Questi ragionamenti e contatti dovevano aver fatto breccia perché qualcosa accadde. Da quel giorno nel nostro giro ossessivo fra uffici investigativi e stanze dei PM, una fonte si mostrò disponibile a spingersi un po’ più avanti. Quell’ufficio e quel dirigente divennero una tappa centrale nel mio lavoro.
Ogni giorno passavo da quelle stanze e ricevevo risposte alle mie domande. Sulle prime com’è giusto che sia ho fatto le verifiche necessarie a valutare l’affidabilità delle informazioni. Non va dimenticato che da lì a poco emergeranno fatti gravissimi (poi al centro d’inchieste concluse con processi e dure condanne), su esponenti di primissimo piano della polizia e dei servizi di sicurezza. La mia fonte non risultò inquinata. Da quel momento, grazie al concorso di tanti altri investigatori che alimentarono il mio come il lavoro di altri cronisti, i miei pezzi ebbero notizie sempre più precise. Si andava delineando un quadro completo in cui quotidianamente affioravano anche i dubbi sulla matrice “esclusivamente mafiosa” dell’eccidio.
Mi sono a lungo interrogato sulle ragioni che hanno spinto un investigatore di valore ad aprirsi senza remore a un cronista che di solito era costretto a fare molta più fatica per aggiungere un tassello alle proprie conoscenze.
Ma una ragione come in tutte le cose c’è sempre. E tanto tempo dopo ho avuto la certezza della molla che aveva scattare le “confidenze” dell’apparato inquirente. La preoccupazione negli ambienti di chi indagava era esattamente identica a quella dei cronisti più avveduti. Dare il giusto valore ad ogni segnale che emergeva dalle verifiche, dagli interrogatori e dagli accertamenti tecnici in modo che le indagini potessero alzare il tiro alla ricerca di tutti i responsabili dell’attentatuni, anche di quelli “coperti”, come fin dal primo giorno si disse e scrisse.
La sensibilità democratica dovrebbe essere il faro dell’azione delle forze dell’ordine e della polizia giudiziaria. Sappiamo tuttavia che non è sempre stato così. Pressioni, interferenze, nei casi peggior depistaggi, sono stati spesso la norma nelle vicende più drammatiche della storia del dopoguerra italiano. Il doppio gioco, la tentazione della “trattativa”, come rivelano le ultime indagini anche sugli attentati di Capaci e via d’Amelio, stanno segnando in maniera sconfortante tante azioni di una parte dell’antimafia. Resta ancora inspiegabile a meno di non pensare il peggio, come investigatori attenti e fra i più noti e stimati, possano aver progettato le “panzane” di Scarantino, propinate ai cronisti e alla stampa come verità assolute e definitive sulla ricostruzione dell’agguato a Paolo Borsellino. I dubbi, se ce ne furono, furono considerati niente più che dietrologie dei soliti cronisti che non si accontentavano mai. Le testimonianze raccolte nell’immediatezza dell’evento, sull’irresponsabile inadeguatezza dei dispositivi di sicurezza intorno al magistrato, sulla permeabilità delle comunicazioni, sulla fragilità delle ricostruzioni dei collaboratori (anche qui una banda di sprovveduti e disperati indicati come i responsabili e gli organizzatori di una delle operazioni militare fra le più sconcertanti del dopoguerra) erano liquidate come pensieri in libertà d’investigatori, magistrati o consulenti che amavano le fughe in avanti. Torno nuovamente alla questione centrale di questo breve scritto: la sensibilità democratica della fonte.
In un’altra occasione ho potuto riscontrare con la stessa evidenza la forte preoccupazione, assolutamente condivisa dal cronista, di una fonte per le sorti del paese. Avvenne nell’88. La sede è il CSM. Il plenum dell’organo di autogoverno dei giudici si riunì in seduta plenaria per giudicare sul primo “caso Palermo” , e valutare la forte denuncia di Paolo Borsellino sullo smantellamento del pool antimafia di Palermo. In quella fase concitata in cui gli avversari di Falcone e Borsellino stavano tramando la loro liquidazione “amministrativa” una fonte consentì a me e ad altri cronisti di svelare il progetto e il rischio dell’annientamento del prezioso lavoro che aveva consentito il primo storico successo contro la mafia:il maxiprocesso a Cosa Nostra. Lo ricorda lo stesso Paolo Borsellino, il 25 giugno del 92 alla Biblioteca comunale. Rievoca le sconfitte di Falcone, la delegittimazione dei suoi capi, le bocciature subite per quei ruoli che avrebbe strameritato di ricoprire. Il vero obiettivo del Csm e dei mandanti esterni nella politica e nell’economia era di distruggere il pool antimafia, quello straordinario e delicato meccanismo ideato da Nino Caponnetto per aggredire con il lavoro comune e la condivisione delle indagini le cosche e i loro complici. Quel modulo organizzativo, in uno con la tempra e il rigore di quel piccolo gruppo di uomini, avrebbe mirato sempre più in alto. Bisognava assolutamente bloccarlo. “…. Scoprì che il vero obiettivo era Giovanni Falcone – scrive Borsellino. E forse questo io l’avevo messo in conto, perché ero convinto che l’avrebbero eliminato comunque; almeno, continua il magistrato ucciso in via D’Amelio, l’opinione pubblica, dissi, lo deve sapere, il pool antimafia deve morire davanti a tutti ,non deve morire in silenzio.
L’opinione pubblica fece il mi
racolo, perché ricordo quella caldissima estate dell’agosto del 1988, l’opinione pubblica si mobilitò e costrinse il CSM a rimangiarsi in parte la sua precedente decisione…..e se pur zoppicante il pool antimafia fu rimesso in piedi.” Dunque la parola pubblica, le denunce giornalistiche, le informazioni non paludate del servizio pubblico contribuirono ad allentare la morsa intorno ai due giudici-fratelli. Fu solo una tregua. Senza una decisione chiara poi le cose presero la piega peggiore e Falcone fu costretto a lasciare Palermo. Non abbandonarono Palermo invece i corvi, le insofferenze per la magistratura, per il cosiddetto protagonismo dei pm. Falcone continuò a lavorare per lo Stato. (Per inciso forse una pagina nuova andrebbe scritta sul suo impegno al Ministero, assediato dalle polemiche di chi sospettava (ognuno giudica con il suo metro!) una fuga o peggio un tradimento).
racolo, perché ricordo quella caldissima estate dell’agosto del 1988, l’opinione pubblica si mobilitò e costrinse il CSM a rimangiarsi in parte la sua precedente decisione…..e se pur zoppicante il pool antimafia fu rimesso in piedi.” Dunque la parola pubblica, le denunce giornalistiche, le informazioni non paludate del servizio pubblico contribuirono ad allentare la morsa intorno ai due giudici-fratelli. Fu solo una tregua. Senza una decisione chiara poi le cose presero la piega peggiore e Falcone fu costretto a lasciare Palermo. Non abbandonarono Palermo invece i corvi, le insofferenze per la magistratura, per il cosiddetto protagonismo dei pm. Falcone continuò a lavorare per lo Stato. (Per inciso forse una pagina nuova andrebbe scritta sul suo impegno al Ministero, assediato dalle polemiche di chi sospettava (ognuno giudica con il suo metro!) una fuga o peggio un tradimento).
Cosa Nostra ha una straordinaria capacità di cogliere il momento giusto, avverte il sostegno o l’isolamento che circonda i suoi obiettivi. Dopo la sentenza della Cassazione che confermava l’impianto del pool antimafia e sanciva definitivamente il successo del magistrato palermitano, cominciò a regolare i suoi conti e con i suoi complici dalle menti raffinatissime, non esitò a ricorrere al tritolo e a far tremare la terra e le istituzioni un sabato pomeriggio alle 17,58 sull’autostrada fra Punta Raisi e Palermo.



