Quel guanto finito nella melma…

Omicidio mattarella

Per anni si è detto che nella storia della Sicilia vi fosse un prima ed un dopo, racchiuso in una data: 6 gennaio 1980. La data dell’uccisione di uno dei politici migliori e perbene della mia Terra, Piersanti Mattarella.

È uno sbaglio. Quella data ha dentro una storia – che ho tentato di raccontare in libri e scritti – che non inizia e non finisce in Sicilia. E quella storia è anticipata da un piano eversivo molto lucido, chiaro, architettato ad altissimo livello e passa, come detto, dalla successiva strage di Bologna, da imputati assolti, da operazioni d’intelligence che hanno poco di servizi e molto di “servizievole”. Ha dentro certamente mafia e terrorismo, dove l’ordine è assolutamente alfabetico e non d’importanza, ma non solo. Ha dentro almeno tre depistaggi, di cui quello portato alla luce dalla Procura di Palermo guidata da Maurizio De Lucia è solo l’ultimo.

La netta opposizione che portò Piersanti Mattarella alla politica di Vito Ciancimino è stata probabilmente sottovalutata da taluni fuori dalla Sicilia (Virginio Rognoni, ad esempio) come una questione personale. Era, invece, una questione sistemica di apparati che si ponevano contro le scelte innovative e di legalità del giovane politico cresciuto con gli insegnamenti di un padre costituente (Bernardo) e schieratosi con Aldo Moro. Tanto che, immediatamente dopo l’omicidio del presidente Dc, Mattarella ricevette una telefonata anonima a casa: “Farete la fine di Moro, presto toccherà anche a voi”. Peccato che la ricevette su una linea telefonica riservatissima, il cui numero era noto solo ai familiari più stretti. Solo una delle tante “stranezze” che puzza di apparati deviati.

Ed è proprio Vito Ciancimino, che a quegli apparati era legatissimo fino a collaborarci, ad effettuare uno di questi depistaggi. Dopo l’omicidio chiese di parlare con l’allora questore di Palermo, Vincenzo Immordino. Ovviamente il dirigente non si negò. Gli rivelò che “l’omicidio di Piersanti Mattarella” era stato ordinato “da ambienti legati a Bontate” (cioè l’avversario dei corleonesi a cui furono tenuti nascosti gli omicidi politici di Reina e, appunto, Mattarella) e “commissionato a un terrorista di sinistra reclutato al Nord, ancora ignoto alla polizia”.

Un terrorista, sì, ma di sinistra.

Un altro depistaggio (o almeno un tentativo) lo fece Bruno Contrada. La vedova di Piersanti Mattarella, la signora Irma Chiazzese, aveva con dovizia di particolari descritto l’identikit del killer, una sorta di fotografia dell’epoca del pluriterrorista nero Giusva Fioravanti (spesso al servizio di servizi, ndr). Eppure nell’agosto del 1980, Contrada volò a Londra con inusuale urgenza, dove la signora Chiazzese si trovava per qualche giorno, per mostrarle le foto segnaletiche del boss Salvatore Inzerillo. La signora Chiazzese negò nettamente che potesse trattarsi del killer del marito, ma la polizia voleva risolvere – e presto – il caso.

Contrada fu mandato – perché la storia va conosciuta e raccontata tutta – dal nuovo questore di Palermo, Giuseppe Nicolicchia (subentrato ad Immordino il 30 maggio 1980) che, si scoprirà successivamente, faceva parte della P2 insieme all’allora capo della mobile palermitana, Giuseppe Impallomeni. E per il lettore più distratto si ricorda che, in occasione della successiva strage di Bologna, è accertato il ruolo di Licio Gelli e della P2.

Così arriviamo ad oggi con l’arresto ed il depistaggio di cui è accusato il questore Filippo Piritore (all’epoca funzionario della Questura di Palermo, quella con i vertici della P2 appunto, ed uomo di fiducia di Bruno Contrada, con cui “si frequentavano anche fuori dal lavoro” ca va sans dire!). Piritore è accusato di aver fatto sparire il guanto lasciato dai killer. Solo quello destro, perché quello sinistro non fu dimenticato e chi lo sa, magari ancora utilizzato.

Un guanto che già all’epoca, se analizzato, avrebbe potuto far rintracciare (o confermare…) l’identità del killer.

Un killer trattato con “i guanti bianchi” si potrebbe dire, seppur il colore così chiaro non lo fosse. Da far sparire ad ogni costo perché le “impronte”, in un omicidio così importante, avrebbero permesso di individuare non solo l’omicida ma la filiera, fino ad alt(r)i personaggi. Perché una volta per tutte va detto chiaramente: Piersanti Mattarella aveva accanto a sé una melma senza fine, pidduisti, mafiosi, terroristi. E tutto ciò toglie qualsiasi alibi alle dichiarazioni di Giusva Fioravanti quando il 23 ottobre 1989 al giudice istruttore di Palermo affermò: “Essendo già gravato da due condanne all’ergastolo, non avrei particolari motivi per negare le mie responsabilità anche in ordine all’omicidio dell’on. Mattarella”.

E no, è proprio l’omicidio Mattarella che, insieme a Bologna, è da nascondere con qualsiasi mezzo. Non ha solo i “neri” dentro, così come neanche solo la mafia, ha molto di più. È l’anticamera della strage più grave mai accaduta nel nostro Paese (ed in Europa fino a quella di Atocha dell’11 marzo 2004) che doveva destabilizzarlo. Ed i “neri” – così come i mafiosi in stagioni più recenti – si mettono al servizio di apparati che li utilizzano e si fanno utilizzare.

Piersanti Mattarella, ai “suoi giovani”, ripeteva continuamente: “Non vi lamentate se il personale politico della Dc siciliana è mediocre o, peggio, chiacchierato e impresentabile, perché la responsabilità più grande e più grave è quella degli onesti e dei capaci che se ne lavano le mani e non si impegnano per cambiare le cose”.

Cambiare le “cose”, così come lui stava facendo. Ed arrivare alla verità sul suo omicidio e, con essa, a quella più complessiva del nostro Paese di cui Mattarella è stato un indiscusso protagonista.

* Presidente Articolo 21


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