Serafino Famà, un avvocato ucciso dalla mafia

L'avvocato Serafino Famà

«Forse è giunto il tempo di spiegare alla città, che un avvocato penalista, può essere ammazzato dalla mafia perché fa il suo lavoro in maniera corretta». Così Goffedro D’Antona, avvocato, ricorda  i quindici anni trascorsi dall’uccisione del collega Serafino Famà, avvenuta il 9 novembre del 1995 a pochi passi dal suo studio, in piazzale Sanzio, a Catania. Una sintesi che racchiude un fatto che a Catania non è ancora realtà: «è giusto far si che la morte dell’avvocato Famà sia patrimonio di questa città. Una città che non ha memoria, in un Paese che non ha memoria. Una città dove si rischia la vita andando a fare un esame all’università, in una città che la notte precipita nella notte del buio delle luci, in una città randagia assediata dai cani randagi, è giusto raccontare a degli studenti a dei ragazzi, che in questa città c’e’ gente che crede alle regole. Che ci sono persone come l’avvocato Famà che sono morte solo facendo il proprio lavoro, in maniera onesta». 
«Mio padre credeva nel diritto alla difesa – dichiara la figlia, Flavia Famà –  credeva che chiunque dovesse subire un giusto processo, credeva che la legge dovesse essere rispettata sempre e comunque. Tra i suoi clienti c’erano dei mafiosi, ma per lui il bene ultimo da perseguire in aula era la legalità. Mio padre li difendeva – ma lo faceva secondo la legge, e se erano colpevoli andavano in galera, senza favori o sconti per nessuno”. Flavia, sguardo intenso, voce ferma e tanta rabbia, nascosta in fondo al cuore che chiede giustizia per quel padre “strappato via all’improvviso” quando aveva solo tredici anni, vive, lavora e studia (Giurisprudenza) a Roma dal 2001. E’ impegnata con la rete di associazioni collegate a Libera, e negli ultimi anni combatte una battaglia centrale, non scontata in una città come Catania: quella della memoria e dell’impegno quotidiano.  
«Nostro padre – continua Flavia – non accettò consigli, suggerimenti, avvertimenti, andò dritto per la sua strada». Su quella stessa strada incontrò il clan Laudani,  braccio armato dei  Santapaola. Anni di indagini e un processo hanno cercato di ristabilire verità e giustizia sull’omicidio, apparentemente inspiegabile, di un avvocato, che i colleghi descrivono, onesto, scrupoloso e appassionato al suo lavoro. E’ dal pentimento dei boss Alfio Giuffrida che  viene fatta luce sulle motivazioni che portarono a emettere la sentenza contro l’avvocato, voluta dal boss Giuseppe Di Giacomo, che non era un cliente difeso dall’avvocato Famà, ma dal collega, Bonfiglio. «Mio padre e Di Giacomo – racconta Flavia – non si conoscevano neppure, ma dopo l’arresto di Di Giacomo, era stato chiesto di far deporre una cliente assistita da mio padre (la quale era in rapporti con Di Giacomo, ndr) al processo che vedeva accusato proprio il boss. Mio padre consigliò alla donna, già contraria a questa scelta, di non deporre. Quando Di Giacomo chiese conto della sconfitta in Tribunale, la colpa fu “scaricata” in qualche modo, su mio padre». Cosi, quando Di Giacomo ordinò vendetta  la scelta, anche se rimangono alcuni punti oscuri nella vicenda, cadde sull’ avvocato Famà.  I responsabili di questo omicidio, sono ad oggi, condannati all’ergastolo, al 41 bis. Lo scorso anno però il boss Di Giacomo decise di collaborare con la giustizia, Flavia e il fratello, Fabrizio, vengono a saperlo attraverso un social network. 
«Per noi non cambia niente, il processo c’è stato – commenta Flavia.  Di Giacomo si pente dopo quattordici anni e non per l’ omicidio di mio padre. Capisco che può essere utile alle indagini  – (processo Scuto & Co, ndr) ma ci sono molti rischi a restituire un regime di semilibertà ad un boss come lui  – com’è  avvenuto per altri, penso ad Avola –  e inoltre l’idea che possa uscire dal carcere duro, nonostante l’omicidio di nostro padre, ci fa venire i brividi». I familiari, in sostanza,  non credono ad un reale “pentimento” del boss ma solo ad una strategia per un alleggerimento delle condizioni carcerarie. 
Ieri a Catania la commemorazione dei quindici anni dalla morte di Serafino Famà si è svolta dai Benedettini, alla presenza dei familiari, di Don Luigi Ciotti, di colleghi e amici (leggi su Libera.it). Al portale universitario della città, Step1, Flavia rilascia una intensa intervista, raccolta dalla giornalista, Luisa Santangelo e dichiara: «Catania l’amo e l’amerò sempre, è la mia città e non posso non esserle legata, ma va avanti con meccanismi malati, dai quali è difficile tirarsi fuori».  E nella stessa intervista emerge un altro tasto dolente dell’omicidio Famà:  il silenzio intorno alla morte, il mancato sostegno ai familiari.  Flavia quel “vuoto” intorno lo ricorda così:  «il sindaco Enzo Bianco, presente anche ai funerali, ci diede un grande supporto. Nessun altro. Arrivò una lettera dall’allora Presidente della Repubblica, Scalfaro e basta. Probabilmente perché non era stata una strage. O perché mio padre era un avvocato penalista, e l’omicidio di un penalista – che nell’immaginario è un uomo senza scrupoli, a cui non importa nulla di chi difende – non fa tanto clamore». (clicca qui per leggere l’intervista integrale).  
L’avvocato Famà, in questi quindici anni è stato vittima due volte: della mafia per aver rifiutato compromessi, e della società civile e di una parte delle istituzioni  che l’ha dimenticato. Chi conosce i suoi figli,  oggi,  però ritrova in loro, nonostante tutto, un profondo  rispetto della legge e delle istituzioni. Insieme a Libera e alla società responsabile, chiedono e praticano un cambiamento culturale per la legalità senza alzare la voce, né puntare il dito, ma portando avanti quella onestà e determinazione, che Serafino, uomo di legge in una città di mafia, ha lasciato loro come testimone.