Sicilia, dentro l’inchiesta su Raffaele Lombardo

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Condannato a sei anni e otto mesi di carcere l’ex presidente della Regione Siciliana, Raffaele Lombardo, con interdizione perpetua dai pubblici uffici e un anno di libertà vigilata.  L’accusa è di concorso esterno in associazione mafiosa e di voto di scambio aggravato durante le elezioni del 2008 che lo misero alla guida della Regione. Per lui, il procuratore capo Giovanni Salvi aveva chiesto dieci anni di reclusione con le pene accessorie di due anni di sorveglianza vigilata e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Le motivazioni della sentenza verranno depositate entro 90 giorni. Un libro, curato dalla giornalista Manuela Modica, offriva più un anno fa un ritratto dell’inchiesta che lo scorso 19 febbraio ha confermato la condanna di  “Sua Maestà Siciliana”, Raffaele Lombardo.

 

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È il 24 maggio del 2011 quando nella cancelleria della Procura di Catania viene depositata la richiesta di rinvio a giudizio a carico di Vincenzo Aiello + 55. È firmata dai sostituti procuratori Giuseppe Gennaro, Agata Santonocito, Antonino Fanara e Iole Boscarino, in forza alla direzione distrettuale antimafia. Tra i 55 in più figurano i nomi di Raffaele Lombardo e del fratello Angelo: “Per aver concorso – pur senza esserne affiliati – nell’associazione mafiosa di Cosa Nostra Etnea”.

Meno di un mese dopo, invece, precisamente il 13 giugno, il procuratore generale – facente funzioni – Michelangelo Patané, e il procuratore aggiunto Carmelo Zuccaro depositavano un’altra richiesta di rinvio a giudizio per Aiello + altri tra cui non c’è traccia dei nomi dei fratelli Lombardo. Cosa è successo tra il 24 maggio e il 13 giugno del 2011?
Prima di rispondere bisogna fare un piccolo passo indietro: Quando il presidente della Regione Sicilia viene iscritto nel registro degli indagati è marzo 2010. Da allora l’inchiesta va avanti senza che la Procura di Catania contesti formalmente alcun reato al Presidente. Il procuratore capo Vincenzo D’Agata vicino alla pensione, tiene l’inchiesta in freezer. Dopo circa un anno arriva il momento del suo ritiro, senza aver preso una decisione sull’inchiesta. Subentra pro tempore Patané, in attesa che venga nominato il Procuratore capo, in corsa per la carica alla reggenza della Procura etnea, Giovanni Salvi, Giovanni Tinebra e Giuseppe Gennaro. Quest’ultimo, titolare dell’inchiesta Iblis, firmatario del rinvio a giudizio di Lombardo. Quindi prima una lunga gestazione, poi un frenetico ping pong: dal 24 maggio in poi le tappe vengono scandite dagli scontri tra i pm intestari dell’inchiesta, da un lato, e il Procuratore reggente e il procuratore aggiunto, dall’altro.

Un’altra divisione, l’ennesima generata da Lombardo. Questa volta raggiungendo un primato originale, uno dei dissensi interni a una procura più evidenti della storia giuridica italiana. Le tappe sono ripercorse dalla squadra che ha generato Iblis: Iole Boscarino, Agata Santonocito, Antonino Fanara e Giuseppe Gennaro, nella lettera di ricorso inviata al consiglio superiore della magistratura. Le prime date riportate sono luglio del 2010, gennafio/febbraio 2011, in cui “vennero convocate riunione tra l’allora Procuratore della Repubblica dottore Vincenzo D’Agata, i procuratori aggiunti dottor Michelangelo Patané e dottor Carmelo Zuccaro ed i sostituti assegnatari del procedimento, nel corso delle quali si discusse delle fonti di prova, degli elementi acquisiti e della sussumibilità della condotta di alcuni indagati (in particolare Raffaele Lombardo e Angelo Lombardo) nell’ipotesei delittuosa di concorso esterno in associazione mafiosa escludendo la possibilità di misure custodiali ma senza raggiungere conclusioni unanimi in ordine alla sussistenza di tutti i parametri individuati dalla giurisprudenza…”. È il 23 maggio, invece, quando inviano per “il visto prescritto” a Zuccaro la richiesta di rinvio a giudizio per gli indagati di Iblis. Tra i quali “in particolare quello di concorso esterno in associazione mafiosa a carico dei fratelli Lombardo e di tale Bonanno Ferdinando”.

Il giorno successivo Zuccaro comunica a Patané l’intenzione di non apporre il visto, limitatemente a questi ultimi 3 indagati. Zuccaro, riferiscono i pm, crede gli elementi a carico dei Lombardo “sufficienti a suffragare esclusivamente le ipotesi delittuose previste dalla normativa elettorale. In più Zuccaro riscontrava una contraddizione nella richiesta di rinvio, “essendosi prospettato dapprima il concorso materiale esterno all’associazione mafiosa e poi il concorso morale esterno nel reato associativo”: Il 30 maggio i pm inviano una nota a Patané, ribadendo “la solidità del compendio indiziario nei confronti degli indagati… rafforzatosi anzi grazie ad elementi emersi nel corso di un interrogatorio di un altro indagato nell’ambito di un diverso procedimento penale”. Ma più interessante è il passaggio successivo quello in cui i pm, nella nota a Patané, ricordano che lo stesso Zuccaro “in una riunione investigativa del luglio 2010, aveva escluso la configurabilità dei reati previsti dalla normativa elettorale.” L’1 giugno il servizio lo batte Patané, “sposando totalmente le obiezioni sollevate dal Procuratore aggiunto e giudicando insufficienti i chiarimenti forniti”. Lo stesso giorno, Zuccaro ribadiva l’opposizione al visto. E due giorni dopo, Patané invitava i procuratori a stralciare le posizione dei tre indagati.  Il 6 giugno la battuta passa ai pm che rispondono di “non condividere l’invito allo stralcio”.

Si arriva così al 13 giugno, data in cui Patané “preso atto della sussistenza di un contrasto con i sostituti assegnatari del procedimento… escludendo l’opportunità di inoltrare comunque la richiesta di rinvio a giudizio con un motivato dissenso espresso dal capo dell’ufficio, alla luce del dovere di assicurare il corretto esercizio dell’azione penale… ha proceduto a revocare ai sostituti originariamente titolari, a ssegnando a se medesimo e al Procuratore aggiunto Zuccaro”. Viste perciò le divergenze, il procuratore capo, facente funzioni, cioè in quel ruolo per poco tempo, in attesa della nomina che sarebbe arrivata il 3 novembre –il Csm “spaccato” avrebbe nominato poi Salvi, con tredici i voti a suo favore, undici andati a Gennaro e due a Tinebra – , s’è preso la briga di spogliare i suoi sostituti dell’inchiesta che avevano condotto, riportandola a sé, stralciando le posizioni dei Lombardo, più il Bonanno. E, passaggio non da poco, invitando subito dopo gli stessi sostituti “revocati” “a continuare a trattare il procedimento, dal quale le tre posizioni “contrastate” sono state separate, nelle ulteriori fasi processuali, attesa la mole della documentazione e la complessità dell’indagine”. La mole dell’indagine è tale, infatti, che Patané non può dopo avergli destituiti da ogni decisione su Lombardo, che restituirla a loro. È il 14 giugno. A questo punto Patané pare giocare da solo: revoca, avoca a sé, stralcia e riassegna. Ma il 21 giugno, Gennaro, rifiuta l’invito di Patané, “sottolineando” che “il provvedimento di revoca ha determinato una disparità di trattamento nei confronti degli altri indagati”. Contestando anche “l’immagine che il Procuratore reggente avrebbe dato all’esterno dell’ufficio diretto, alla luce delle interviste rilasciate alla stampa in funzione “garantistica” contro “posizioni vessatorie” assunte dai sostituti originariamente titolari dell’indagine”. Ribadendo ancora, che il compito del Pm è quello di “esercitare l’azione penale” e non di “garantire preventivamente la sentenza definitiva di condanna”. Già, perché questa volta le divergenze create da Lombardo s’insinuano nelle maglie della giurisprudenza, diventando un dibattito, prima interno, poi rivolto al Csm, sull’indipendenza dei pubblici ministeri.

Sempre il 21 giugno i 4 sostituti ribadiranno la “differenza di valutazione del quantum probatorio che consente la formulazione di richiesta di misura cautelare e del quantum che impone l’esercizio dell’azione penale”, evidenziando ancora “che l’ordinamento non prevede la necessità di esplicito assenso da parte del Procuratore della Repubblica o di un suo delegato per la formulazione da parte dei Sostituti assegnatari della richiesta di rinvio a giudizio”, trattandosi nel caso del “visto” “solo di uno strumento funzionale per garantire al Procuratore della Repubblica la conoscenza dei provvedimenti adottati dai singoli Sostituti”.  Ma ancora, scrivono: “La facoltà di revoca dell’assegnazione… non potrebbe sostanziarsi in un provvedimento che privi di ogni autonomia i magistrati facenti parte della Procura”. Il consiglio superiore della magistratura, interpellato nella “vulcanica” controversia sorta all’interno della Procura etnea, risponderà il 23 settembre, di fatto non evidenziando nessun comportamento illeggittimo da parte di Patané o Zuccaro, né da parte dei sostituti. Ma verrà anche specificato questo: “Tuttavia la modificazione della qualificazione giuridica non può certo comportare un’elusione dell’obbligo di sottoporre al vaglio del giudice, mediante richiesta di archiviazione, la determinazione di non esercitare l’azione penale per tutti i fatti originariamente ipotizzati”.

Ma il 14 settembre Patané ha citato direttamente a giudizio i Lombardo per reati elettorali, di fatto bypassando il Gip, perciò creando proprio quell “elusione dell’obbligo di sottoporre al vaglio del giudice”, che il Consiglio superiore della magistratura riteneva non potesse avvenire. Raffaele e Angelo Lombardo dovranno così apparire il 14 dicembre davanti al giudice monocratico. La decisione arriva poche settimane prima della nomina del reggente di Catania, alla quale concorre Gennaro, cioè uno dei 4 sostituti ad aver firmato il rinvio a giudizio. “Ma il reggente Patanè evita il giudizio del gip, che sarebbe il “giudice terzo” invocato dallo stesso Lombardo. E lo evita anche dopo che il fascicolo sugli altri indagati è stato affidato, con decisione assai discutibile, a un Gip che è il marito di Rita Cinquegrana, nominata proprio da Lombardo sovrintendente del Teatro Massimo di Catania. Non gli chiede né il rinvio a giudizio per un altro reato né l’archiviazione per il reato più grave. Lo aggira del tutto e, con una decisione sorprendente, cita direttamente a giudizio Lombardo (e suo fratello) per violazione della legge elettorale.

Nessun giudice potrà dunque stabilire se l’accusa precedente era fondata o meno, e nessun magistrato potrà più procedere contro il governatore per quella vicenda, in base al principio per il quale nessuno può essere processato due volte per lo stesso fatto. Al presidente della Regione, e alla giustizia, serviva un giudizio pubblico e trasparente delle prove a suo carico. La via d’uscita che si è inventato il fantasioso reggente della Procura lo impedisce per sempre. Se davvero il caso Lombardo si concluderà così, l’ombra del sospetto non si allontanerà affatto dal governatore. E si allungherà invece sulla Procura di Catania, che dopo una così lunga gestazione ha partorito una decisione che forse neanche il collegio di difesa dell’imputato aveva osato immaginare”.* Mentre: “Vincenzo D’agata il procuratore che ha tenuto a bagno maria l’inchiesta per quasi un anno, dopo aver raggiunto la pensione è “adesso in corsa per la presidenza dell’Autorità portuale di Catania”. ** Successive discussioni tra le due fazioni in procura porteranno alla decisione finale, tardiva, di Patané di chiedere l’archiviazione per i reati inizialmente contestati ai due fratelli. Così che un giudice terzo, potrà eventualmente accettare o rigettare l’archiviazione.

Intanto Angelo e Raffaele Lombardo prima indagati per concorso esterno in associazione mafiosa, saranno poi citati a giudizio per voto di scambio, perché “in concorso tra loro, determinavano esponenti delle associazioni di tipo mafioso Cosa Nostra a clan Cappello, tra cui Aiello Vincenzo, Di Dio Rosario, Barbagallo Giuseppe, D’Aquino Gaetano, Fichera Sebastiano, Vaccaluzzo Salvatore e Pardo Orazio, a promettere ed a somministrare denaro ed altra utilità a più elettori per ottenerne il voto in favore di Lombardo Angelo, candidato alle elezioni politiche del 2008 per la Camera dei Deputati e del Movimento per l’Autonomia, di cui Lombardo Raffaele è il leader politico, per le medesime elezioni politiche del 2008 al Senato ed alla Camera dei Deputati. Condotta dei fratelli Lombardo consistita nell’avere indotto gli esponenti dei predetti sodalizi mafiosi al sostegno elettorale in loro favore, mediante generiche promesse di aiuti per il rilascio di pubbliche erogazioni, per l’assunzione di impieghi in favore di appartenenti agli stessi sodalizi mafiosi o di imprese dagli stessi direttamente o indirettamente controllate. In Catania e provincia in epoca anteriore e sino al 14 aprile 2008”***.
* Da La Repubblica, edizione Palermo del 15 settembre 2011, editoriale di Sebastiano Messina.

** Da L’Unità, 24 settembre 2011, pag 33, Claudio Fava.

*** Decreto di citazione diretta a giudizio. Procura distrettuale della Repubblica, presso il Tribunale di Catania, 14 settembre 2011

 

— Manuela Modica – “Sua Maestà Siciliana, Raffaele Lombardo. Ritratto del governatore che dividendo impera”—- Edizioni FuoriOnda – collana Interferenze