Siti sessisti. La rete e la società incivile

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Una parabola così non si potrà dimenticare, per riprendere amaramente un noto motivo musicale. Parliamo della rete e dell’esplosione dei siti sessisti. La vicenda non è limitata a pur estese aree colpite da patologie inquietanti, bensì è l’epifania del ribaltamento della stessa natura della rete: da luogo delle libertà a epicentro del capitalismo della sorveglianza e organizzatore di forme svariate di criminalità.

E di questo è necessario parlare, perché dalle indagini in corso stanno emergendo pure le finalità estorsive di simile piaga gravissima, che fa mercimonio del corpo delle donne secondo riti maschilisti avvolti nella barbarie. Ciò non significa, ovviamente, che Internet e social siano naturalmente colpevoli, salvo trovare le prove, per parafrasare una famosa affermazione di un altrettanto famoso magistrato.

Tuttavia, tale scandalosa storia sessista ci deve ammonire che quella rete tanto agognata da chi vi vedeva il superamento delle angustie della televisione generalista ormai non esiste. Le richieste di evitare interventi adeguati in nome di una asettica e astorica cultura libertaria non hanno senso al cospetto del massacro di persone ridotte a corpi di album pornografici.

A proposito di televisione, è bene sottolineare che quarant’anni di emittenza commerciale, segnati dalle degenerazioni berlusconiane proprio in materia (certi programmi trash collocati nelle ore di massimo ascolto, con un’insistita volgarità a fungere da contesto di consumo), hanno contribuito a dare la stura ad una moltiplicazione esponenziale del fenomeno.

Non si tratta di evocare sciocchi moralismi, come al tempo delle calzamaglie imposte alle Kessler o del dibattito attorno all’ombelico di Raffaella Carrà o -per innalzare la soglia critica- dell’emarginazione di Pier Paolo Pasolini. Si intende, al contrario, sollecitare un approccio finalmente indipendente dai dettami della ricerca del successo nell’ascolto o nei click mediante la devastazione dell’immaginario, pure del legittimo desiderio sessuale. Anzi. Come hanno insegnato coloro che ne hanno scritto in modo rigoroso, simile processo degenerativo corrompe persino le estetiche sane dell’erotismo.

Ma torniamo a ciò che è successo ed è assurto così clamorosamente agli onori del discorso mediale e della visibilità politica. Sotto il profilo giuridico e normativo l’aria in verità dovrebbe già essere cambiata. Il Regolamento europeo del 2022 (in vigore dal 17 febbraio 2024) Digital Services Act cambia l’ordine degli addendi: le piattaforme non sono meri trasportatori delle attività veicolate, secondo i dettami della Direttiva del 2003 sul commercio elettronico, bensì dei soggetti responsabili.

Il Dsa non assegna -sarebbe del resto improbale- ai proprietari delle Tech diritti e doveri di chi dirige una testata, ma impone un indirizzo teso alla moderazione dei contenuti e all’accoglimento delle denunce, da girare agli organismi competenti. Viene introdotta la figura (individuale o collettiva) del «segnalatore attendibile», vale a dire soggettività in grado di rintracciare tracce pericolose e illegali. Al riguardo, perché non costruire momenti associazionistici specializzati, magari come parti di organizzazioni consolidate, a partire dalle Case delle donne? Inoltre, tanto l’articolo 28 del Dsa quanto il 13 bis della legge n.123 del 2023 (ex decreto Caivano) tutelano in maniera particolare i minori, che possono avere facile accesso pure ai siti in questione.

Se è vero che la componente trasparente del Web è una esigua percentuale rispetto ai territori dark, risulta evidente il cambiamento di pelle della rete. Gli Internet studies non possono eludere simili tendenze e ci si attende un sussulto delle medesime teorie sui media classici e sull’infosfera.

La magistratura è al lavoro ed è augurabile che si eviti di sfornare qualche leggina-propaganda di occasione. Il quadro regolatorio va certamente migliorato, ma già ci sono riferimenti. L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni mostri almeno la stessa forza che ha esibito contro i trasgressori del diritto d’autore. Le donne non valgono meno del copyright.

Fonte: il manifesto