Ci penso e mi dico che è davvero uno dei regali più preziosi che ti possano toccare in sorte.
Un coetaneo dalle energie infinite, che sprigiona forza e poesia, che annuncia che la giovinezza non “ti fugge tuttavia” ma abita nel tuo animo, che a tre quarti di secolo può inchiodare in pubblico l’uomo più potente del mondo suscitando ovazioni travolgenti e mai volgari. Lo guardi, lo ascolti, e pensi che hai ancora tante cose da fare nella vita e guai a te se ti fai tentare dal lusso di non farle. Il mondo non ti ringrazierà ma tu potrai essergli ancora utile.
Sto parlando, lo avrete capito, di Bruce Springsteen, poiché un conto sono i concerti intesi come eventi musicali e un conto è il magma di sentimenti che si deposita per sempre in chi ci va o ne sente narrare. Guai a chi si ritira. E guai a chi cerca capziosamente le parole che dividono anziché quelle che uniscono e interpretano, o addirittura rigenerano, grandi sentimenti collettivi.
La bandiera americana fissata in cima a tutto, quasi invisibile a chi osservi solo il palco. Ma certificato universale, testimone solenne per chi sa di potere a buon diritto rivendicare l’ identità e storia di popolo scritta in quella bandiera, da “Born in the Usa” a “The Rising” a “The Ghost of Tom Joad”.
Una folla sterminata che (in Italia) canta per tre ore in inglese, dando fondo a un dizionario costruito nei concerti, poiché da tempo non è solo l’amore che fa imparare bene le lingue ma anche la musica. Un gruppo di artisti che sanno cos’è una professione quando è sorretta dalla passione.
E l’attore protagonista che in quella canicola veste gilet, camicia e cravatta senza mai prendersi una pausa non si dice di un minuto ma nemmeno di un secondo, scatenandosi in una generosità “senza limiti e confini” (copyright Battisti).
Sono centrifughe di pensieri questi concerti. Rievocano a giovani e anziani grandi storie sociali, di gruppi, di classi, di etnie, di stati d’animo, senza che nessuno possa tirar fuori dal cilindro un “radicalchic”, la parola dei poveri di mente. Accumulano, nota dopo nota, tratti di storia, frugano furtivi nelle biografie, facendo scoppiare il cuore a tradimento, le note che cantavi con lui o con lei che ti risalgono dentro da lontano come fulmini.
Irrompe senza stridii di banalità il cartello chissà quanto a lungo concepito “ciao mamma”, va in onda il bacio felice di una coppia di giovani che si scorge d’incanto sullo schermo, s’avanza l’ottantenne in bandana a cui il mio coetaneo, come una irresistibile macchina del tempo, regala i suoni e il ritmo di quarant’anni fa.
Mentre più generazioni sentono forse per la prima volta di persona gli ultimi brani, quel malinconico e tenace “sarà lunga la strada del ritorno” (alla democrazia). Intorno, decine di migliaia di fiammelle, l’imbrunire dei giorni più lunghi, una fascia di sole che si assottiglia all’ultimo anello di San Siro, lo stadio più bello che gruppi anonimi spuntati dal nulla vorrebbero demolire, ma che questo spettacolo condanna senza pietà alle fiamme eterne.
A volte i concerti sono pezzi di storia, non c’è bisogno di ripetere Woodstock, basta la tournée di un artista che ha l’idea e il coraggio della democrazia nell’epoca infarcita in ogni dove di don Ferrante e don Abbondio, di allucinati “vi dico io come stanno veramente le cose”.
A settembre il mio più illustre coetaneo farà il suo nuovo compleanno, e io lo seguirò a ruota nella preziosa scadenza anagrafica. Sentendomi protetto nel mio incedere nel tempo dalla forza della sua immagine.
Grazie a lui, mi dico, nessuno può impacchettare i suoi (e miei) coetanei nella vecchiaia o negli stereotipi della senilità.
Vedete un po’come durante i concerti il pensiero e la memoria di ciascuno possono volare incontrollati da ogni parte, a parità di musica e contesto. E a proposito di contesto: giuro che è bellissimo uscire da San Siro e dirsi “che grande cosa è la democrazia”.
Fonte: Il Fatto Quotidiano, 07/07/2025



