Trattativa: Mori, De Donno e la (falsa) pista Ciancimino

Processo palermo trattativa stato mafia

I due ufficiali del Ros, nel libro “L’altra verità”, accusano la procura di Palermo di non aver sfruttato per le indagini l’ex sindaco mafioso Don Vito

Gli autori di questo libro, Stefano Baudino e Heiner Koenig, hanno saputo “governare” una materia ampia e complessa, presentandola in maniera documentatissima e appassionata. Si tratta delle vicende più significative della Procura di Palermo nel periodo gennaio 1993-luglio 1999 e, ancora successivamente, fino alla fine del 2024. La continua proiezione del racconto sull’attualità, mediante il richiamo agli esiti giudiziari e ai riflessi istituzionali di quanto ricostruito, serve a introdurre il lettore in una dimensione che costituisce il presupposto determinante per capire ed eventualmente decifrare la realtà.

Ora, più che parlare del libro, che si può “gustare” appieno solo con una lettura integrale, vogliamo occuparci di due personaggi che in esso hanno una posizione di rilievo: il generale Mario Mori e il colonnello Giuseppe De Donno. Anche loro hanno scritto un saggio (L’altra verità, Edizioni Piemme, d’ora in poi citato come MDD), in cui espongono una tesi che ci sembra sbagliata e lesiva nei nostri confronti.

La tesi di Mori e De Donno è che noi non avremmo adeguatamente “sfruttato” per le indagini l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, col rammarico – dicono i due Ufficiali – che… “il treno passa una sola volta nella vita”. In verità, a noi Ciancimino è parso più che altro un triciclo un po’ sgangherato che si muoveva secondo un copione finalizzato a che fosse lui a sfruttare gli inquirenti, senza nessun ritorno in termini di fattiva collaborazione.

Nel libro, Mori e De Donno utilizzano ampiamente un dattiloscritto di Ciancimino, intitolato “Le mafie”. Qui Ciancimino si auto-elogia come persona leale dal comportamento sempre ineccepibile. Egli è invece spietato nei confronti di Falcone, irriso chiamandolo ripetutamente “il nostro” o “il magnifico nostro” e coperto da un diluvio di insulti volgari, tipo “bugiardo e scorretto”, “delirante”, “cialtrone”, “imbecille in malafede”. Non meno vergognose sono le parole che don Vito riserva a Borsellino: “È inconcepibile che una persona dotata di tale ‘testa’ possa continuare a fare il magistrato”. Nessuna pietà per i due magistrati uccisi dalla mafia; solo un odio feroce. Dunque un comportamento in totale distonia rispetto ai requisiti occorrenti per riconoscere un potenziale pentito affidabile. A maggior ragione se (come Ciancimino) si pretende con arrogante jattanza – preliminarmente e “a prescindere” – la ”patente” di collaboratore con i benefici connessi, basata su un atto di fede o giù di lì.

Si fa fatica, di conseguenza, a capire come possano Mori e De Donno (due figure che sostengono di aver avuto un unico scopo: vendicare Falcone e Borsellino) “sponsorizzare” don Vito dandogli un credito postumo quasi incondizionato e scorgendovi una straordinaria opportunità di lotta alla mafia, invece della inaffidabilità e ambiguità che sono i tratti caratteristici del “corleonese in mano ai corleonesi”. Eppure, secondo Mori e De Donno, nuove indagini si sarebbero potute/dovute fare utilizzando gli spunti offerti da Ciancimino su alcuni temi. Non fosse che Ciancimino non va oltre un impasto (talora surreale) di suggestioni, illazioni, deduzioni, sensazioni, cose dette a metà o semplicemente pensate: in sostanza “fuffa”, chiacchiera senza apprezzabile fondamento o significato, priva di prospettive concrete processualmente utili.

Un esempio per tutti, il c.d. “Architetto” (MDD p. 212-213), cioè il possibile autore del disegno politico che portò a eleggere un Capo dello Stato diverso da Andreotti. Sostiene Ciancimino: “Io ho in testa il nome del possibile architetto, ma non ne ho le prove […]”; per poi precisare che le notizie al riguardo le ha raccolte “nel corso delle passeggiate lungo le vie di Roma (salotto)”, dove ha “orecchiato parole” che lo hanno indotto a parlarne. Non di meno i due ufficiali, nel loro libro, se ne escono con una teoria stupefacente: premesso che forse sarebbe stato impossibile andare a dibattimento (MMD p. 200), loro “stavano per sbaragliare ciò che non poteva essere sbaragliato” (ibidem), perché Ciancimino “avrebbe potuto portare le indagini a livelli mai toccati prima” (MDD p. 218): beninteso, dibattimento escluso, perciò girando a vuoto senza sbocchi di una qualche utilità, avendo gli stessi Mori e De Donno ammesso poco prima che tale livello era di fatto inarrivabile.

Tutto ciò non può non suscitare interrogativi. Una possibile chiave di lettura si può trovare a p.199-200 MMD, dove si legge: “Se ci fosse stato il dottor Falcone o il dottor Borsellino? […] Di una cosa siamo sicuri: non ci sarebbe stato il processo trattativa Stato-mafia”. Potremmo allora azzardare l’ipotesi che il libro su Ciancimino sia una risposta (maturata in un contesto di recriminazioni rancorose) all’inchiesta “Trattativa”. Senza che ciò basti per esorcizzare l’ingente materiale probatorio e storico-fattuale emerso nel corso dei processi “politici”: da quello Andreotti a quello Dell’Utri fino alla “Trattativa”; delineando una vicenda storica che assume i connotati di una tragedia nazionale incombente, quasi destinata a ripetersi ciclicamente.

* Prefazione al libro “Stato-mafia: la guerra dei trent’anni” di Stefano Baudino, Heiner Koenig (PaperFIRST, 2025)

Fonte: Il Fatto Quotidiano, 15/07/2025


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